Tra laicità e “hindutva”: il secondo Modi?
Con la sua Costituzione ed esperienza di 70 anni di democrazia, la più grande del mondo, in un caleidoscopio di religioni, l’India ha senza dubbio proposto un modello di laicità tipico. Si tratta di un concetto ben diverso da quello occidentale, particolarmente la laicité francese. Quando in India si parla di secularism – “laicità” appunto, mai “laicismo” – si intende la capacità politica e sociale di trattare tutte le varie comunità religiose alla stessa stregua, non solo per evitare il pericolo di uno Stato confessionale o addirittura teocratico, ma per assicurare il dovuto rispetto socio-politico ad ogni comunità e agli esseri umani che la compongono. Eppure, il male opposto, che in India viene definito con il termine communalism – difficile se non impossibile da tradurre – è sempre stato in agguato e ha provocato nel tempo scontri spesso anche cruenti con non poche vittime fra musulmani e indù, indù e sikh (in occasione dell’assassinio di Indira Gandhi nel 1984) e anche, sia pure in tono minore e pure diverso, fra indù e cristiani.
In questi decenni, infatti, è cresciuta l’idea della hindutva, ideologia nata ispirandosi all’omonimo volume scritto da Vinayak Damodar Savarkar, che considera il grande Paese asiatico come la terra degli indù. L’idea che ha preso forma negli anni ’20 del secolo scorso, diventando sempre più radicale e militate e, quindi esclusiva, di fatto rischia di inficiare il lavoro dei grandi padri dell’India, Gandhi e Nehru su tutti. L’ideologia dell’hindutva è progressivamente penetrata sia nel tessuto sociale che in quello politico e burocratico ed ha trovato espressione reale nella figura di Surendra Modi, fresco di un secondo mandato plebiscitario alla guida del grande Paese dell’Asia meridionale. Modi è figlio di questa ideologia che ha applicato abilmente nello Stato del Gujarat dove è stato premier locale per oltre un decennio e dove, nonostante terribili scontri fra musulmani ed indù dei quali è stato accusato, è riuscito non solo a sopravvivere come figura pubblica, ma a ridare una dignità alla personalità tipica dell’indù del Gujarat, socialmente e moralmente ferito da quanto era successo per via degli scontri con i musulmani.
In effetti, è riuscito a fare lo stesso come primo ministro e lo dimostra il fatto che il suo partito nella recente tornata elettorale ha avuto un grande successo anche in uno Stato come l’West Bengal (con capitale Kolkata l’antica Calcutta) dove di fatto la presenza di fondamentalisti indù non era mai stata avvertita e dove i veri signori della politica da decenni erano il locale partito comunista e Mamata Banerjee, piccola ed indomita donna bengalese, che ha speso la sua vita per la politica e per i poveri. Inoltre Modi con il Bjp ha ovviamente conquistato Stati dove la presenza cristiana è notevole – ben al di sopra del 2% nazionale – come quelli del Nord-Est. I risultati sorprendono. Modi, infatti, non è stato votato solo dagli indù, ma statisticamente deve aver ricevuto voti non indifferenti anche da minoranze presenti nel grande Paese. La parte del Paese che sembra restare ancora impermeabile all’ideologia dell’hindutva è il Sud, in particolare il Tamil Nadu ed il Kerala, caratterizzati da forte cultura dravidica, ben diversa da quella indo-ariana e sanskrita del centro-nord. Nella zona fanno eccezione il Karnataka, con la sua capitale Bangalore centro industriale del software protagonista di un grande balzo economico in avanti, e lo stato di Telangana di recente costituzione, ma colpito dalla mancanza di piogge e da raccolti che costringono non pochi contadini al suicidio.
Non si può sottovalutare, poi, il fatto che la campagna elettorale appena conclusa sia stata forse la più violenta, non solo negli atti, ma anche soprattutto nei toni e nelle accuse verbali, fra quelle combattute nell’India indipendente e molti – soprattutto nelle minoranze musulmana e cristiana – hanno percepito in questa tensione l’ombra dell’hindutva sempre più presente e sempre più elemento discriminante. Resta il grande quesito di come questa apparente contraddizione abbia potuto aver luogo. È un aspetto del populismo di oggi, di cui facciamo esperienza in Italia e in Europa, come pure negli Usa e in altri Stati asiatici come le Filippine.
Altro elemento tradizionalmente discriminate nelle elezioni indiani – e Modi lo ha abilmente commentato nel dopo annuncio dei risultati – è quello della corruzione, aspetto endemico della società indiana e che, pure, non ha avuto un ruolo rilevante in questa campagna. Il Bjp si vanta, infatti, di non essere stato oggetto di accuse di corruzione, a parte un tentativo da parte dell’opposizione, ma che è stato di fatto una bolla di sapone. Si sa, comunque, che il problema sussiste.
Un terzo aspetto è quello castale che da sempre gioca un ruolo determinante nella complessa situazione indiana. Parlando ieri a un gruppo di sostenitori, Modi ha chiarito come attualmente in India ci siano solo due caste, i poveri, e quelli che vogliono liberare l’India dalla povertà. La sua linea politica è quella di arrivare ad eliminare proprio la povertà dal Paese. In effetti, la struttura castale è ancora – e lo resterà a lungo – l’impalcatura fondamentale della costruzione sociale indiana. Ma Modi, indù osservante – lo ha fatto anche durante una visita di Stato negli Usa facendo il suo digiuno rituale in occasione di una ricevimento alla Casa Bianca –, riesce con una retorica attraente ed efficace a spostare la discriminante su nuovi parametri che, comunque, restano reali. La grande ascesa economica e finanziaria del Paese negli ultimi due decenni ha visto allargarsi la forbice fra classe abbiente e media, da una parte, e i milioni di poveri degli slum e di certi villaggi dell’India, dall’altra.
Molti, comunque, si interrogano su questo regno incontrastato che continuerà ancora per un quinquennio e che permetterà alla ideologia dell’hindutva di mettere radici ancora più profonde nella struttura sociale e burocratica del Paese. Uno degli slogan più ad effetto della campagna elettorale del Bjp è stato sabka saath, sabka vikas – con tutti, sviluppo per tutti –. La formula era mirata proprio a quanto discusso sopra: la questione dell’apertura verso tutte le comunità sociali e religiose e l’assicurare il desiderio da parte dei politici di risolvere il problema della povertà. Ma nella complessa situazione del Paese qualcuno sta suggerendo un terzo elemento da aggiungere alla formula vincente: sabka vishwas – fiducia in tutti –. La speranza di molti indiani è che il secondo mandato Modi non si trasformi in una vera radicalizzazione dell’hindutva ma che sia più inclusivo ed accogliente nei confronti di ogni comunità ed individuo, anche coloro che non ne condividono il senso ed i valori, ma che discendono dalla stessa radice culturale, quella di un mondo come l’induismo che vede l’umanità come una sola grande famiglia.