La Palestina ci riprova

L’elezione di Biden alla presidenza Usa, e la necessità di far fronte alla politica sbilanciata verso Israele dell’amministrazione Trump, stanno spingendo il mondo politico palestinese a confrontarsi su due fronti importanti che sembravano ormai senza speranza: il dialogo tra i partiti palestinesi e con lo stato ebraico
Il presidente palestinese Mahmoud Abbas, anche conosciuto come Abu Mazen (AP Photo/Majdi Mohammed)

Dopo la contestata (da Trump) elezione presidenziale statunitense e la possibilità sempre più concreta che il prossimo presidente Usa sia Joe Biden, anche in Palestina si sta muovendo qualcosa. Nessuno sa bene cosa fare e come muoversi, ma qualche speranza in più (almeno quella) si sta riaffacciando e, soprattutto, sta cambiando il clima.

L’aveva preannunciato una grande “signora” della politica palestinese, Hanan Ashrawi, in un’intervista a reset.it del 7 ottobre scorso rispondendo ad una domanda sul prossimo presidente degli Stati Uniti: «Non siamo così sprovveduti da pensare che alla Casa Bianca possa mai insediarsi un presidente con la kefiah. Ci basta che a capo degli Stati Uniti d’America vi sia una persona che voglia davvero svolgere il ruolo di facilitatore di una pace giusta e duratura fra Israeliani e Palestinesi. Che sia arbitro imparziale e non un player di una delle due squadre in campo. Quello che è stato Donald Trump».

Bisogna riconoscere che comunque le “idee del secolo” dell’ormai quasi ex inquilino della Casa Bianca (tutte puntualmente schierate a sostegno dell’amico Netanyahu e delle proprie posizioni) hanno provocato reazioni positive nel mondo politico palestinese: positive nel senso che oltre a un unanime rifiuto, nello stesso tempo hanno fatto emergere sempre di più l’improrogabile necessità di cercare una nuova sinergia tra gli sparpagliati partiti palestinesi che da anni si ritrovavano “l’un contro l’altro armato”.

Le prime avvisaglie di questo nuovo clima si erano avute già all’inizio di settembre, quando c’era stato un incontro (necessariamente in video conferenza, causa Covid-19) tra il presidente Mahmoud Abbas con i capi di tutte la fazioni palestinesi, compresi Ismail Haniyeh (Hamas) e Ziyad Al-Nakhalah (Jihad islamica), per trovare una strategia comune in grado di contrastare i progetti di annessione della Cisgiordania, il cosiddetto “accordo del secolo” annunciato da Trump a gennaio e le ultime inquietanti (almeno per i palestinesi) normalizzazioni diplomatiche tra Israele e alcuni Paesi arabi (Emirati e Bahrein in testa). Senza parlare del precedente taglio completo operato da Trump ai fondi Unrwa per la Palestina.

Uno dei risultati, quasi incredibile, dell’incontro di settembre è stato la costituzione di 3 comitati che includono rappresentanti di tutti i 14 partiti palestinesi e che dovranno proporre una leadership nazionale, la riunificazione fra Gaza e Cisgiordania e i modi per dare nuovo slancio all’Olp.

Ė di questi giorni, 16 novembre, la notizia fornita da una fonte ufficiale di Fatah e confermata da una altrettanto ufficiale di Hamas, che i due maggiori partiti sono impegnati, al Cairo, in un clima positivo, in una serie di incontri (stavolta in presenza) che hanno l’obiettivo di favorire la riconciliazione tra i gruppi palestinesi. Era una cosa che non succedeva da tempo. Basti ricordare che il Parlamento Palestinese (Plc) è bloccato dal 2007 a causa degli scontri armati tra Hamas e Fatah, e le elezioni generali auspicate dalle parti per il 2014 non si sono mai tenute.

Il fatto che i colloqui si svolgano a Cairo sembra indicare un riavvicinamento all’Egitto in veste di mediatore, mentre fino a poco tempo fa le parti sembravano più orientate ad appoggiarsi alla Turchia e al Qatar, su posizioni diametralmente opposte a quelle egiziane. Secondo Samir Ghattas, esperto di terrorismo e capo del Forum per gli studi strategici del Medio Oriente, l’Egitto sta cercando di convincere Hamas che Joe Biden si impegnerà per favorire la soluzione a due stati (Israele e Palestina). L’ipotesi, cioè, che Trump ha sempre visto come fumo negli occhi e che è invece da sempre sostenuta dai palestinesi.

Le discussioni al Cairo dei due interlocutori palestinesi stanno in questi giorni affrontando lo spinoso tema delle elezioni: Hamas vorrebbe elezioni simultanee di Presidenza, Parlamento e Consiglio dell’Olp; Fatah è piuttosto favorevole a dilazionarle nel tempo. Un altro punto da chiarire, sul quale vi sono divergenze di vedute, è il sistema elettorale, se ricorrere al proporzionale puro (come sostiene Fatah) o misto (come vorrebbe Hamas).

Comunque la rinnovata speranza (per ora soltanto tale, ma è già qualcosa) di un processo di pace orientato al principio “due popoli, due stati” e l’orientamento in questo senso del presidente Usa eletto hanno riaperto porte che sembravano chiuse ed è ripreso un dialogo tra fazioni palestinesi che sembrava divenuto impossibile. Anzi, Abu Mazen ha aggiunto che su queste premesse è disponibile a riaprire il dialogo con Israele, che da mesi aveva dichiarato chiuso.

Un’altra persona che ha dato qualche possibilità, secondo alcuni, alla ripresa del dialogo tra i partiti palestinesi e con Israele è stata Kamala Harris. In una recente intervista con The Arab American News la vicepresidente eletta ha dichiarato che si impegnerà a sostenere la nascita di uno stato palestinese all’interno dei confini di Israele, con capitale a Gerusalemme, e chiedendo limitazioni al numero di ebrei autorizzati a vivere in Giudea e Samaria. Naturalmente di fronte a queste dichiarazioni non mancano gli scettici che sostengono che sostanzialmente nulla cambierà per i palestinesi. Per adesso sembra prevalere la speranza nel cambiamento.

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