La guerra, cioè la follia
«Stamani mi sono svegliato col suono delle pallottole. Ho preso le valigie e sono scappato. Ho trovato una chiesa per celebrare la Messa. È una brutta esperienza quella di scappare dalla propria casa. C’è tanta disinformazione in giro. Nel Paese ci sono tanti gruppi di sabotaggio che fanno esplodere le infrastrutture strategiche. Cerchiamo di andare avanti… ma abbiamo paura. Speriamo che finisca presto». Così scrive su Whatsapp un prete ucraino, abita a Kiev, all’alba.
Ci siamo, purtroppo. La ragione aveva cercato di spiegare le ragioni della stupidità della guerra ucraina, ma Putin ha deciso l’attacco. Facendo tacere la razionalità e la diplomazia, che l’avrebbero certamente spinto a più miti consigli, semplicemente leggendo i numeri dell’economia russa e internazionale. Il presidente russo ha fatto la sua dichiarazione di guerra.
Putin ha dato ascolto al suo orgoglio ferito a cominciare dal momento della caduta del muro di Berlino, e punzecchiato anno dopo anno da piccole sconfitte locali (in questo le responsabilità occidentali, in particolare degli Stati Uniti, sono gravissime), temperate solo dal successo (minuscolo) in Ossezia del Nord e Abcasia, sul fronte siriano (successo invece maiuscolo) e recentemente nelle lande kazake (in fondo poca cosa, roba da intelligence).
Questa guerra d’Ucraina viene da lontano, dalla frustrazione dell’eclissi dell’Unione Sovietica: mai dimenticare che Putin era un alto funzionario del Kgb (la polizia segreta dell’Urss), amico del sanguinario Kadirov, spietato stratega dei servizi segreti, e allo stesso tempo nostalgico della potenza zarista, quella meno illuminata e più muscolosa. «Un genio», l’ha definito ieri Donald Trump. Bisogna vedere se del bene o del male.
Da un mese, e per un dato periodo – che presto o tardi finirà, si spera il prima possibile –, Putin ha ripreso in mano la comunicazione mondiale, mettendo sotto scacco il nemico yankee, la pavida (secondo lui) Europa, e persino l’alleato ingombrante che sta a Pechino. C’è una dichiarazione che non ha fatto molto rumore, ma che dice la gravità della situazione. È stata redatta proprio dal governo di Pechino: «Si invitano le parti alla moderazione». Perché la dichiarazione è grave? Perché Pechino, pur essendo evidentemente dalla parte di Mosca, sa bene che deve giocare all’arbitro mondiale, e quindi richiama anche il “nano” Putin a non fare il birbante troppo a lungo.
La strategia cinese è sempre quella di scatenare potentissime guerre commerciali senza sparare un colpo. Pechino ha bisogno di mercati mondiali che tirino, certo non di blocchi, sanzioni e anatemi. I missili di Mosca lanciati su Kiev e sulle altre città ucraine non piacciono comunque alla Cina.
Lo scenario apertosi stanotte è il peggiore che si potesse immaginare, perché non si conoscono le conseguenze della decisione di Mosca, a breve, medio e lungo termine. Lo scenario più credibile, prima di stanotte, era quello di un’invasione del Donbass, e in fondo le diplomazie occidentali erano tutte pronte a protestare a caratteri cubitali, ma poi avrebbero accettato lo stato di fatto, perché quei territori erano già dati per persi. Avrebbero concesso pure la conquista di Mariupol e forse di Odessa. Ma Putin ha attaccato il cuore stesso dell’Ucraina, Kiev, quella “Rus’” (termine che indica le popolazioni e i territori di Ucraina, Bielorussia e Russia occidentale, ndr) che conobbe il battesimo cristiano, radice di ogni pensiero di ogni russo. Non lo si può mai dimenticare. Ed ha quindi solleticato i più riposti orgogli russi.
Dipenderà ora dalle risposte occidentali, se sarà muro contro muro, se la diplomazia continuerà a scavare dei tunnel sotto le macerie per evitare la deflagrazione di un conflitto su più larga scala, se le lobby delle armi avranno la loro influenza provocando una nuova corsa al riempimento degli arsenali militari, se l’inflazione schizzerà in alto, se aumenteranno ulteriormente le materie prime, dal gas all’alluminio, dal grano all’uranio, se il gas diventerà merce rarissima raddoppiando il proprio prezzo, e il petrolio quasi, se i Paesi alla frontiera con l’Ucraina diventeranno a loro volta più guardinghi e più aggressivi, se inizieranno le espulsioni di russi da questi Paesi, e viceversa.
L’Estonia, ad esempio, per quasi metà di popolazione russa a suo tempo esportata dall’Unione Sovietica staliniana, è sotto pressione da anni ormai, e Putin gongolerebbe, certamente, nel vederla ritornare nell’orbita moscovita. In ogni caso la guerra diventerà di nuovo fredda, dopo la fiammata ucraina, e porterà con sé danni duraturi. Alle economie senza dubbio. A cominciare da quella russa, però, che ha visto la borsa crollare di botto, nella prospettiva di un blocco delle risorse finanziare russe nelle banche occidentali.
Inutile seguire su queste colonne le cronache, le strategie militari dello zar Putin, le riunioni dei responsabili politici in Occidente. Il web è inondato di breaking news (un buon 20%, attenzione). Molto meglio pensare (e pregare, da subito e non solo nel prossimo Mercoledì delle Ceneri, come papa Francesco ha invitato a fare) per le popolazioni che in questo momento si trovano sotto la minaccia di una grave crisi militare. Che siano russofoni o meno, che siano filooccidentali o filorussi, che siano cittadini del mondo, dell’Europa, dell’Ucraina, della Russia. La umana dignità è stata al solito calpestata dalla guerra. E lo sarà ancora a lungo.
E non dimentichiamo che Putin agisce con ogni probabilità perché avverte che l’opinione pubblica russa lo sta lasciando, anche perché dal 2014 le sanzioni occidentali hanno reso palpabile lo scenario economico dell’isolamento che sarebbe seguito a una guerra. Mi scrive un collega che vive in Russia, italiano diventato russo nel cuore: «Sono addolorato e mi vergogno e condivido i sentimenti di molti qui. Questi molti sono però comunque una minoranza, purtroppo non organizzata e senza leader. Questo riflette la condizione del Paese in cui ogni posizione che si discosti da quella del governo viene stroncata».
E ancora: «La stragrande maggioranza dei miei più di 2 mila amici sui social ha espresso la propria condanna a quanto sta succedendo, il sostegno agli ucraini in termini di preghiera e di condivisione. Niente però di più concreto, pochi sono usciti per strada con cartelli “no alla guerra” e anche se i “picchetti individuali” sono legali e permessi, i russi che hanno osato farlo sono stati arrestati, portati ai posti di polizia e multati. Lev Ponomarev, il più autorevole dei dissidenti ancora di epoca sovietica, 81enne, ieri è uscito in piazza con un cartello simile ed è stato arrestato».