La carovana che ha lasciato tutto

Il corteo migratorio delle ultime settimane è uscito di clandestinità toccando le fibre più sensibili di intere società. E ha scatenato, con l’inerme forza dei deboli, la furia di Trump, uno degli uomini più potenti del mondo

Le strade di Città del Guatemala si muovono al ritmo di qualsiasi altra città dell’America Latina. Sono le 7 di mattina e la coda delle macchine è lunghissima in una delle principali arterie di circolazione: il raccordo anulare. Parallelamente alla fila di macchine, avanza un’altra fila, ma di persone a piedi. Sono centinaia di honduregni che cercano di arrivare alla strada che porta al confine con il Messico. Per un paio di settimane la scena è diventata frequente, in diverse città, ma non si può dire che sia “normale”. Edwin Sancé, un “normale” cittadino guatemalteco, si reca al lavoro e dal finestrino della sua macchina osserva la carovana di persone che, con bagagli leggeri, avanza. «Vedere questi bambini camminare accanto ai loro genitori con un futuro così incerto dinanzi a loro mi ha commosso, perché non c’è dubbio che debbono essere proprio disperati per intraprendere un viaggio di questo genere – commenta –; ogni volta che ne vedo provo a dar loro almeno un po’ di soldi perché credo che il minimo che noi guatemaltechi possiamo fare è mostrare solidarietà. Alla fine, questa è una situazione in cui vive anche la nostra gente».

Mentre tutto ciò sta accadendo in Guatemala, gli Stati Uniti annunciano che invieranno 15 mila uomini al confine e che utilizzeranno oltre 240 chilometri di filo spinato per impedire il passaggio della carovana di migranti centroamericani. Donald Trump ha descritto l’esodo dei migranti come «un’invasione» ed ha affermato attraverso Twitter che «ci sono molti membri di bande armate e persone molto cattive miste alla carovana che va verso il nostro confine meridionale. Nessuno sarà ammesso negli Stati Uniti a meno che non segua il processo legale». Affermazioni che seguono le sanzioni economiche annunciate la scorsa settimana, che taglieranno gli aiuti che gli Stati Uniti donavano ogni anno a Guatemala, Honduras e El Salvador. Poche o nessuna risposta diretta viene dai governi del triangolo norte dell’America centrale.

Ma queste dure minacce non sono sufficienti a bloccare la marcia. Il gruppo di honduregni continua il suo percorso con passo deciso e cerca di unirsi all’uno o all’altro dei vari gruppi di migranti che attraversano il Guatemala per raggiungere il Messico e poi gli Stati Uniti. La cifra aumenta ogni giorno e il numero di persone che si è unito alla carovana è sempre più incerto, ma è stimato a più di 8 mila. Domenica scorsa un gruppo di 500 salvadoregni proveniente dalla capitale San Salvador si è unito alla carovana. Egualmente un altro gruppo di 200 disperati lo ha fatto mercoledì mattina. Mentre l’ingresso in Guatemala non rappresenta una vera difficoltà, quando si arriva al confine con il Messico inizia il vero percorso del combattente.

Venerdì, il presidente del Messico, Enrique Peña Nieto, ha in effetti lanciato un piano chiamato “Sei a casa”. Apparentemente a favore dei migranti. «Siamo un Paese che valorizza e riconosce la dignità dei migranti – ha affermato in un video –, vogliamo che voi tutti vi sentiate tranquilli e protetti». La misura cerca in effetti di fare in modo che i migranti centroamericani desistano dal proposito di continuare il loro viaggio verso gli Stati Uniti. In cambio, offre loro la permanenza in un rifugio, mentre viene avviata la trafila per essere riconosciuti come rifugiati. Il piano in realtà si applica solo al Chiapas e all’Oaxaca, gli Stati più a sud del Messico, quindi lontani dalla frontiera con gli Usa. Dopo le speranze iniziali, le persone che camminano non vogliono accettare questo piano. Il quotidiano digitale Plaza Pública riporta la notizia che 1.700 persone, la maggior parte honduregne, sono state fatte entrare alla Fiera Internazionale Mesoamericana, a Tapachula. Lì, a quanto pare, stanno aspettando una risposta legale per avere il loro statuto di immigrati. Tuttavia, questa misura richiede loro di rimanere bloccati (cioè detenuti) all’interno del luogo. Plaza Pública racconta come le persone all’interno del campo si sentano tradite e non vogliano far altro che uscire e continuare il viaggio verso gli Stati Uniti. Tutti insieme, come quando hanno lasciato il loro Paese.

Gli animi sono tesi e la disperazione di trovare un po’ di stabilità aumenta. Per ora, il punto chiave è il confine tra Guatemala e Messico. Domenica scorsa un gruppo di 1.500 persone, tra cui diversi bambini, ha cercato di attraversare con la forza la recinzione di confine. La polizia guatemalteca e quella messicana hanno cercato di disperderli usando armi, scudi e gas lacrimogeni. L’atmosfera si è fatta tesissima e lo scontro diretto ha causato la morte di un giovane honduregno di 26 anni, colpito da un proiettile di gomma.

Di fronte all’impossibilità di oltrepassare il reticolato, il giorno dopo la carovana si è avviata verso il fiume Suchiate, che marca la linea di confine, negli ultimi 75 km, tra Messico e Guatemala, ed è un punto strategico della migrazione irregolare. Ma questa volta la consueta scena di migranti isolati che cercavano di raggiungere il Messico attraversando il fiume è cambiata. Questa volta, centinaia di persone erano immerse nelle acque, tra cui tanti genitori che portavano i loro bambini sulle spalle, mano nella mano, a formare una catena che impediva a chiunque di annegare. Allo stesso tempo, la polizia federale messicana si è sistemata dall’altra parte del fiume, impedendo a chiunque di raggiungere un terreno solido. Un elicottero, per di più, è sceso a pelo dell’acqua, creando pericolosi turbini d’aria e d’acqua. Dopo tre ore di immersione nel fiume, la polizia si è ritirata e i migranti hanno finalmente potuto continuare il loro viaggio verso gli Stati Uniti.

Gilberto Alas è un ricercatore e analista salvadoregno che risiede in Messico e ha dedicato i suoi studi ai diritti umani dei migranti. Ritiene che questa sia la migrazione più irregolare mai vista in questa parte del continente, aggiungendo che «se stiamo assistendo a un modo massiccio e visibile di tentare la via del nord, è perché questa gente vuole un po’ più di protezione rispetto a quella che ha nel proprio Paese e nei Paesi di transito. Inoltre, rimanendo in formazione compatta, cerca di avere meno probabilità di cadere nelle mani di gruppi organizzati specializzati nel traffico di esseri umani, di armi e di droga. Questa è una migrazione atipica, non solo per la visibilità, ma anche per il modo in cui è formata. Vediamo in essa dai bambini agli anziani, intere famiglie che intraprendono il viaggio».

Al di là dell’uso della forza e delle armi, i governi del nord e centro America non riescono nei fatti a rispondere alla crescente carovana che, lungi dal disperdersi, sta crescendo giorno dopo giorno. È un segno dei tempi.

 

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