Ius soli, il modello italiano in discussione
Ius soli, espressione latina usata in italiano per dire, in maniera sincopata, l’acquisto della cittadinanza di uno Stato per nascita all’interno dei suoi confini; il suo contrapposto è lo ius sanguinis, che invece fa derivare la cittadinanza da quella dei genitori.
In Italia le leggi sulla cittadinanza portano il segno non dell’immigrazione, ma dell’emigrazione. E questo spiega in gran parte l’impostazione basata sullo ius sanguinis: l’esigenza era quella di tutelare i figli dei nostri emigrati, dando loro la possibilità di mantenere il legame con la loro terra d’origine e favorirne il rientro: a ciò rispondeva la legge del 1912 e, ancora, quella del 1992.
Esigenze opposte spingono oggi a rivedere quella normativa. La domanda sociale odierna riguarda i nati in Italia da genitori non italiani (e in questo caso si parla strettamente di riconoscimento della cittadinanza italiana) o gli immigrati che decidono di soggiornare stabilmente nel nostro paese (e qui si tratta di “naturalizzazione”, ovvero di concessione della cittadinanza italiana). Tenendo a mente questa basilare distinzione, si coglie subito che una questione di “ius soli” si pone solo nel primo caso, ovvero per gli immigrati di seconda e ulteriore generazione.
Ora, lo ius soli nudo e crudo prevede l’acquisto della cittadinanza di uno Stato per chiunque sia nato entro i suoi confini, anche se casualmente: è questo il caso degli USA o del Canada, ad esempio. Il disegno di legge approvato dalla nostra Camera dei Deputati non recepisce questa forma illimitata, perché subordina la cittadinanza per nascita al possesso da parte di almeno uno dei genitori, del diritto di soggiorno permanente (se appartenente a un paese UE) o del permesso di soggiorno di lungo periodo (per gli immigrati da paesi non UE).
Tali certificazioni a loro volta presuppongono una permanenza legale e continuativa in Italia di almeno cinque anni e nel caso del permesso di soggiorno di lungo periodo, presuppongono pure un minimo di reddito, un alloggio e la conoscenza della lingua italiana verificata con un test.
Quindi, un bambino che nasce da genitori immigrati di cui almeno uno si trovi nelle condizioni descritte, è di diritto cittadino italiano: di diritto, che non vuol dire automaticamente.
È necessario, infatti, che vi sia una dichiarazione di volontà espressa da parte di un genitore. E se il genitore non la fa? Il nuovo nato avrà tempo fino a due anni dopo il compimento della maggiore età per farla personalmente; così come entro lo stesso lasso di tempo potrà chiederne la revoca, se in possesso di altra cittadinanza.
Se queste norme entrassero in vigore, interesserebbero tutti i giovani entro i 20 anni di età, nati nel nostro Paese in presenza delle condizioni descritte.
Ma cosa prevede oggi la legge del 1992 per i nati in Italia da genitori immigrati? Per i figli di naturalizzati, ovviamente, la cittadinanza italiana è automatica (per ius sanguinis); gli altri dovranno attendere di essere maggiorenni per poter scegliere se restare della cittadinanza di origine o acquistare quella italiana. Si ha un anno di tempo per farlo (il disegno di legge lo aumenterebbe a due). Annotazione pedante, ma speriamo non superflua: il giovane nato e vissuto legalmente, senza interruzioni, in Italia fino alla maggiore età, già oggi per acquistare la cittadinanza deve solo dichiarare di volerlo: non si tratta di naturalizzazione (che presuppone un procedimento concessorio), ma di acquisizione di diritto su base volontaria. È anche questa una forma di ius soli, quindi.
I dati Istat confermano un andamento da considerarsi fisiologico, ovvero che è in crescita il numero dei giovani neo-italiani, divenuti tali per trasmissione dei genitori o per loro scelta da maggiorenni. Riguardo la nazionalità, si contendono il primato Marocco e Albania. Più in generale, la crescita dei neo-cittadini è costante: dai poco più di 56mila del 2011 ai 178mila del 2015, il 3,6% del totale dei cittadini stranieri residenti al 1°gennaio 2015.
Ma dall’Istat ricaviamo anche qualche elemento di riflessione più profonda, che investe lo stesso “significato da attribuire al termine cittadinanza in una società sempre più cosmopolita in cui spostarsi è diventato molto più semplice”, per dirla con le parole del presidente Alleva durante una audizione in Parlamento. Segue la rilevazione di una quota elevata di ragazzi che pensano di andare a vivere all’estero: tanto italiani (42,6 per cento) che stranieri (addirittura il 46,5 per cento; e tra questi, in quelli che non sono nati in Italia prevale il voler vivere in un altro stato). Numeri che fanno concludere al presidente Alleva che il mutamento del senso della “cittadinanza” e dell’“appartenenza” non interessa solo i figli di immigrati, ma in generale le giovani generazioni.
C’è da pensare. Se per i nostri ragazzi il mondo è sempre più piccolo, vale davvero la pena accapigliarsi sulle nuove regole?