Intervista a don Corrado Lorefice
A Palermo lo chiamano semplicemente don Corrado. Stiamo parlando dell’arcivescovo della città, arrivato nel capoluogo siciliano tre anni fa. Quando lo abbiamo intervistato, alcuni mesi fa, non sapeva ancora che il prossimo 15 settembre avrebbe ospitato la visita di papa Francesco. «La sua visita ci darà ulteriore slancio perché la Chiesa palermitana possa accogliere il Vangelo», fra i commenti a caldo dell’arcivescovo Lorefice appena resa nota la notizia.
Don Corrado, si aspettava di diventare vescovo di Palermo?
Assolutamente no, sono stato colto di sorpresa in un momento ordinario della mia vita di parroco a Modica. Ricordo che era il primo venerdì del mese, il 2 di ottobre, e tra una visita e l’altra agli anziani a cui avevo portato la comunione, avevo controllato il telefonino e trovato una chiamata da Roma: era la nunziatura. Il 6 ottobre ho incontrato il nunzio e quando ho saputo il motivo della chiamata e, ancor più, la sede a cui ero destinato, sono rimasto tramortito. Ricordo che in nunziatura davanti a me c’era un crocifisso: sentivo di perdere l’aria all’idea, perché avevo la sensazione di qualcosa che sovrastava le mie capacità. Però, guardando il crocifisso, mi è venuto in mente san Paolo, «Tutto posso in colui che mi dà forza». Il nunzio ha capito e mi ha dato alcuni giorni di tempo per poter avere una risposta definitiva. Ho accettato con molta trepidazione, ma anche con un senso di pace per qualcosa che non avevo cercato e che mi era stato consegnato.
Com’è stato l’impatto con la città?
Meraviglioso. Sin dal primo momento in cui sono arrivato a piazza Pretoria, la gente mi ha accolto con entusiasmo, gioia, grande fiducia umana e fede dal punto di vista spirituale. Il fatto di aver visto nascere il proprio vescovo il giorno della consacrazione, come non succedeva da tanto tempo qui, penso che abbia creato un grande legame. D’altra parte, scegliendo di essere ordinato a Palermo, io stesso ho vissuto la consacrazione come un’alleanza direi sponsale con questa Chiesa. È chiaro che si tratta di una città che ha delle meravigliose potenzialità, così come delle fragilità. Con uno stile diretto e semplice, che punta alla prossimità e all’essenzialità del Vangelo, si riesce a stimolare le migliori energie che poi vengono messe in campo nelle realtà ecclesiali, nelle diverse comunità. Anche uomini e donne che non fanno direttamente riferimento alla fede sono attirati da questa prospettiva di relazione, di presenza nella vita degli uomini che non sa assolutamente di imposizione, di conquista di spazi, ma che dice invece compagnia, capacità di saper ascoltare, di saper valorizzare quanto ci accomuna.
Mi pare di capire che gran parte del suo tempo l’ha impiegato nel costruire relazioni.
Il giorno della mia consacrazione ho scelto di far trovare nei posti riservati in cattedrale ai sacerdoti e ai consacrati, il famoso testo del patto delle catacombe, un patto che alcuni vescovi – dei continenti più poveri e dei luoghi dove la fede era chiamata ad una testimonianza fino all’effusione del sangue – fecero durante il Concilio Vaticano II. In quel testo i vescovi si impegnavano a condurre una vita ordinaria e quindi ad eliminare i titoli altisonanti, a condividere nella sobrietà la vita della gente più semplice. Questa non è una cosa che mi sono imposto, ma è uno stile di vita che ho maturato in famiglia e nella mia chiesa di appartenenza; fa parte del mio corredo genetico. D’altra parte, questo stile lo abbiamo incontrato nel volto, nelle parole e nei gesti di Gesù di Nazareth, per cui alcuni testi o Vangeli ci ridanno questa dimensione di incarnazione. Se noi vescovi dobbiamo aiutare la crescita di comunità cristiane che hanno la consapevolezza di condividere il Vangelo con gli uomini e le donne del nostro tempo, non possiamo avere uno stile di vita diverso rispetto a ciò che annunciamo. Io amo stare in mezzo alla gente per quanto mi è possibile, e non mi riferisco solo ai momenti liturgici; quando posso, vado nei quartieri, nelle parrocchie, nelle scuole, negli ospedali, in tante realtà della città. Ho cominciato la mia avventura di vescovo all’indomani della consacrazione celebrando la mia prima messa all’Ucciardone coi detenuti.
Che caratteristiche hanno la Chiesa e la città di Palermo?
La diocesi ha una grande tradizione di testimonianza di santità cristiana. Penso a certi nomi, da Cusmano, fino a Puglisi, passando da Rosalia, dal beato Spoto. Una santità che addirittura ha inciso sempre nel tessuto sociale, una Chiesa che ha avuto delle figure episcopali meravigliose. Palermo è una città che ha una grande tradizione, ma che non deve vivere solo nella nostalgia del passato; una città che ha bisogno dei cristiani, così come i cristiani hanno bisogno di questa città, con la consapevolezza che la testimonianza oggi ci viene richiesta in forme diverse. Gli anni di piombo sono stati segnati dall’impegno per la giustizia, fino al martirio in alcuni casi; oggi serve una testimonianza che incida nei drammi sociali della città, senza dimenticare la sfida culturale e quella per la legalità. Il mio desiderio è quello di un Vangelo che va accolto e vissuto, di una comunità cristiana che abbia una grande tensione spirituale, una capacità più “profetica” che aiuti anche le istituzioni a guardare al loro servizio, non dal piedistallo di un potere, ma dall’umile prospettiva di chi sa che una città non può che costruirsi a partire dalle frange più deboli. E soprattutto di una città che ha bisogno di riscattare le membra più deboli da quelle che possono essere invece – questa oggi la sfida più che mai – le fragilità manipolabili da chi esercita poteri carsici. Mi riferisco da questo punto di vista a una città che è segnata ancora non solo dalla malavita, ma soprattutto da logiche e strutture mafiose, che hanno tutto l’interesse a che questo territorio non progredisca culturalmente. Non si tratta solo di essere riconosciuta città della cultura: occorre ritrovare tutta l’energia e la forza per un riscatto culturale. Penso che per far questo Palermo abbia tutte le potenzialità, tutte le capacità.
Una città che si affaccia sul Mediterraneo, ponte fra culture che qui si sono succedute…
Sì, Palermo è stata ed è crocevia di culture, di religioni, una città che è abituata ad accogliere la gente e speriamo di mantenere questa cultura – ma attualmente non tira una buona aria nella nostra Penisola, compresa la nostra isola –. Palermo oggi ha una potenzialità che può realmente segnare, mi piace dirlo, la coscienza stessa dell’Europa, un’Europa che sembra impaurita, “imbacuccata” direi, perché oggi di questo realmente si tratta. Se noi siamo culla di una grande civiltà, lo siamo anche perché in Europa i diversi popoli, le culture, le religioni si sono incontrati. In alcuni quartieri del centro è bello vedere che le vie sono indicate con le diverse lingue, dall’ebraico all’arabo, al latino, al greco: questa è Palermo. Penso che anche dal punto di vista del dialogo interreligioso è una città che ha una grande tradizione, e la mia prima preoccupazione è stata quella di continuare le opportunità di incontro non solo con le altre confessioni cristiane, ma anche con le altre religioni presenti. Penso per esempio alle comunità musulmane, alla comunità ebraica a cui abbiamo donato l’oratorio di Santa Maria in Sabato perché finalmente a Palermo potesse avere un luogo di culto. Palermo, grazie a Dio, è una città dove il dialogo si vive.
Ha destato interesse il fatto che nel suo primo discorso alla città ha citato l’articolo 3 della Costituzione…
Io sono convinto che il Vangelo possa contribuire alla realizzazione del cuore della Costituzione che io ravviso nell’art.3. Intanto lì ogni uomo di qualsiasi razza o religione ha la sua dignità, ha il diritto a realizzarsi come persona a partire dall’elemento essenziale che è il lavoro. Questo riguarda sicuramente l’Italia, ma in particolare il Sud e la Sicilia. La mancanza di lavoro significa la mancanza di realizzazione della persona, a cominciare dagli spazi ordinari, la casa, la famiglia, le relazioni. Più manca il lavoro, più c’è povertà, più c’è disagio: è chiaro che questo è un humus dove crescono la tensione, la violenza, l’illegalità. Da qui le varie forme mafiose che cercano di schiavizzare l’uomo, perché la mafia è questo: un’oppressione, una limitazione della libertà e della dignità dell’altro perché c’è qualcuno che vuole prevaricare e sottomettere. Ecco perché la presenza dei cristiani nella città degli uomini è una presenza a tutto campo, non invadente, ma che assume il grido che sale dall’umanità, lo fa suo. Anzi, sono convinto che i cristiani hanno una energia che proviene dalla fede in un Dio che si incarna, che assume la realtà umana, non se ne sta lontano, distante, a osservare.
I cristiani siciliani sono rassegnati a questo stato di cose? Dove troveranno la forza per cambiarle?
Non penso che siano rassegnati, vedo tante potenzialità presenti in Sicilia. Certo, è chiaro che dobbiamo fare una sorta di conversione mentale, culturale perché spesso siamo portati ad attendere che la manna cada dal cielo. Il clientelismo ha concorso a narcotizzare le coscienze, ma oggi vedo la capacità e il desiderio di un’assunzione di responsabilità, di incidere positivamente, con un cambiamento mentale. Penso anche alla questione del lavoro. A maggior ragione c’è bisogno di una comunità cristiana che accompagni questo processo di riscatto. Penso che questa sia la sfida che abbiamo anche nei confronti del mondo giovanile; oggi i giovani sono costretti a scappare via dal Sud, in un Sud dove invece l’arte, la natura, la cucina, potrebbero offrire grandi e creative prospettive di sviluppo.
Un sogno nel cassetto per Palermo e la Sicilia?
Il mio sogno è questo: una Chiesa che abbia realmente la passione di un Vangelo che motiva la nostra vita, quello che papa Francesco chiama la gioia del Vangelo, il sentimento che raggiunge i discepoli perché fanno esperienza di Cristo che cambia la vita. E poi il sogno è quello di una città come Palermo e le città del Sud, che possano realmente guardare a un futuro da costruire insieme, concentrando le forze, mettendo insieme, tirando fuori le migliori potenzialità che abbiamo e, soprattutto, offrendo ai giovani opportunità di risorse e impiego per farli rimanere nella nostra isola. Penso che questa sia oggi la grande sfida che abbiamo tutti, che hanno i nostri amministratori. Questo è il sogno che ho e che mi impegnerò a costruire insieme alla mia comunità perché le nostre città siano vivibili, nel segno della solidarietà, della giustizia e soprattutto della legalità.