Inesausta «febbre di vita»
È la primavera del 1987 e il Centro internazionale di cultura di Nagoya, in Giappone, sta preparando una settimana di eventi dedicata all’Italia programmata per il seguente mese di giugno. Il lavoro sta andando nella direzione tradizionale tipica della cultura nipponica, che legge il nostro Paese nell’ottica degli stereotipi di cucina, moda e musica.
In quel tempo si trova a Nagoya Angela Volpe, giovane lettrice di italiano presso la locale università. Angela vive l’esperienza educativa di Comunione e Liberazione e collabora col Centro internazionale di cultura. Questa attività le ha permesso di incontrare una giovane giapponese residente a Nagoya, la dottoressa Wakako Saito, laureata in letteratura americana presso l’università del Koyasan, luogo di fondazione del buddhismo Shingon, scuola buddhista che ha visto la luce in Giappone nell’ottavo secolo dell’era cristiana ad opera di Kobo Daishi. Wakako, con la sua famiglia, pratica il buddhismo Shingon e ciò le ha permesso di sviluppare una profonda sensibilità religiosa. Proprio questa sensibilità permette l’incontro con Angela e lo sbocciare di un’amicizia.
Lavorando alla preparazione della settimana dedicata all’Italia, le due giovani convengono sull’opportunità di allargare l’orizzonte della proposta in modo tale che comprenda anche l’esperienza religiosa. Angela suggerisce perciò di invitare un sacerdote che ella conosce molto bene: don Luigi Giussani (1922-2005). Nello stesso tempo è scettica sulla possibilità che possa accettare, dati i suoi molteplici impegni. La direzione del Centro accetta la proposta e una lettera di invito parte alla volta di Milano.
Con grande sorpresa di tutti, don Giussani acconsente. La sua passione missionaria non gli permette di trascurare alcuna occasione. La sua conferenza viene fissata per il 27 giugno. Quel giorno la sala principale del Centro è affollatissima e il sacerdote milanese propone il suo intervento, che sarà poi pubblicato col titolo: “La chiarezza della fede di fronte al buddismo migliore”. Alle sue parole fanno seguito numerose domande da parte dei presenti, segno dell’interesse suscitato.
Desiderosi di conoscere l’uno l’esperienza dell’altro
Terminato l’evento, Wakako e la sua famiglia invitano don Giussani a visitare il Koyasan per incontrare alcuni monaci loro amici. Don Giussani accetta volentieri e con le persone che l’accompagnano si mette in viaggio per la montagna sacra del buddhismo Shingon, dove l’attendono i monaci Habukawa, Takagi e Matsunaga. Per un giorno e mezzo parlano e si ascoltano. Vita, morte, dolore e gioia, educazione e lavoro i temi che affollano le loro conversazioni. Gli uomini sinceramente religiosi, infatti, si incontrano: curiosi e desiderosi di conoscere l’uno il mistero dell’altro. In particolare, accade la sorpresa di una simpatia profonda e reciproca tra don Giussani e il monaco Habukawa, allora docente di filosofia nell’università del Koyasan. Una simpatia destinata a diventare un’amicizia profonda, che ha lasciato un segno indelebile nella vita di entrambi.
Al termine del soggiorno al Koyasan, don Giussani invita i monaci a visitare il Meeting per l’Amicizia tra i popoli dell’anno seguente, a Rimini. La proposta è accolta volentieri e nell’agosto del 1988 dodici monaci accompagnati da Wakako e da Angela sbarcano nella città della riviera romagnola. È l’occasione per il popolo del Meeting di incontrare questi uomini e la loro esperienza religiosa, la prima opportunità che si offre al movimento di Comunione e Liberazione di incontrare e conoscere la secolare tradizione buddhista. Quello del 1988 è destinato ad essere il primo di tanti altri appuntamenti annuali.
Riconoscere l’appartenenza all’unico Mistero
Il fatto più sorprendente si conferma essere il rapporto “strano” ed affascinante tra Giussani e Habukawa.
L’iniziale simpatia tra i due si approfondisce, trova spazio nei loro cuori radicandosi in una stima sincera e sconfinata, che rinasce continuamente dal reciproco riconoscimento del legame profondo di appartenenza all’unico Mistero che fa e regge tutte le cose. Al punto che, quando la presenza annuale dei monaci shingon al Meeting viene meno, Habukawa continua fedelmente le sue visite: gli è impossibile rinunciare ad incontrare il suo amico.
Chi è stato testimone dei loro incontri non può dimenticarne la drammatica e disarmante semplicità. Non potendo parlare una lingua comune, affidavano la profondità del loro cuore alla semplicità intensa dello sguardo immerso nel silenzio. Un silenzio più eloquente di tante parole. Rimane scolpito nella nostra memoria il giudizio espresso da don Giussani al termine di un pranzo con Habukawa: «Se quest’uomo fosse vissuto ai tempi di Gesù, sarebbe stato uno dei dodici». Un giudizio nato da un uomo profondamente innamorato di Cristo e perciò capace di riconoscere un cuore traboccante della percezione del Mistero. L’amore a Cristo, infatti, consente di guardare la realtà con una curiosità insaziabile, alla ricerca costante di ogni brandello di bellezza pur piccolo che si affacci all’orizzonte del nostro sguardo. Curiosità e desiderio diventano le note distintive della personalità cristiana adulta, chiamata a diventare esperta della vita, cioè dell’arte dell’incontro.
Abbracciare la totalità dell’esperienza dell’altro
Anche dopo la nascita al Cielo di don Giussani, avvenuta nel 2005, Habukawa continua ad essere ospite fedele del Meeting e non fa mancare la visita e la preghiera alla tomba del suo amico. Un tratto interessante di questa storia di incontro e di amicizia è lo sguardo che Habukawa ha portato fin dall’inizio su don Giussani: la curiosità non solo sulla sua persona, bensì su tutta la realtà del movimento nata da lui. Da questo sguardo e da questo giudizio sono nate diverse iniziative. La più interessante rimane quella dell’invio di un gruppo di giovani monaci suoi allievi in Italia, in Uganda e in Kenya per conoscere una parte significativa delle opere nate da persone che vivono l’esperienza educativa di CL. L’incontro tra due persone che vivono con semplicità la dipendenza dal Mistero non cede mai alla tentazione del sentimentalismo. La curiosità per l’altro tende sempre ad abbracciare la totalità dell’esperienza che nasce da lui come sorpresa continua, come dono che viene dall’Alto. Per questo, Habukawa ancora oggi, durante la preghiera mattutina nel tempio della sua casa al Koyasan, ricorda don Giussani e i suoi amici italiani, ne conserva le fotografie e ne parla ai pellegrini che ogni giorno gli fanno visita.
Chi scrive ha avuto ed ha ancora la grazia di visitare Habukawa e la sua famiglia al Koyasan due volte l’anno, dal lontano 1993. La grazia di essere testimone di un avvenimento sorprendente che ancora arricchisce la vita del Movimento e perciò la vita della Chiesa. La profondità dello sguardo di Habukawa non si è attenuata. La stima per don Giussani continua ad essere la stima per i suoi amici.
La sorpresa irriducibile dell’incontro
Don Giussani definiva la cultura come «coscienza critica e sistematica dell’esperienza», che rinasce continuamente nell’imprevedibilità dell’incontro. Il Mistero, incarnandosi, si è concesso alla sorpresa irriducibile dell’incontro. Attenderlo e desiderarlo rende il cristiano lieto ed instancabile nell’operosità.
L’amicizia con Habukawa rimane emblematica nella nostra storia, testimonianza significativa della apertura indefessa all’altro che ha sempre caratterizzato la vita di don Giussani fin dalla sua più tenera età.
Gli incontri con persone del mondo ortodosso e protestante, con esponenti della tradizione ebraica e musulmana, come pure con personalità provenienti dalla cultura laica e socialista continuano a testimoniarci la bontà e la convenienza del metodo dell’incontro. Del resto, non è necessario alcuno sforzo in questa direzione: basta la gratitudine per l’incontro con il Signore Gesù. Da essa scaturisce inesausta quella «febbre di vita», secondo la felice espressione del Servo di Dio don Giussani, che conduce il cristiano incontro alla realtà e alla sua sconfinata sorpresa.
Il magistero di Papa Francesco, del resto, ci provoca e ci conforta nello stesso tempo: il suo instancabile richiamo a una “Chiesa in uscita” e la sua sottolineatura del metodo dell’incontro come proprio del battezzato sono punto di riferimento e di giudizio irrinunciabili. Ce lo ha ricordato nella Evangelii gaudium: «Non mi stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva”. Solo grazie a quest’incontro […] con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità» (nn. 7-8). Come non essere grati a Pietro per questo richiamo all’essenziale? E come non avvertire tutta la responsabilità e la gioia di incontrare chiunque per testimoniare l’avvenimento che ci ha cambiato la vita?
Ambrogio Pisoni