Individui inutili?
Stockfish è un algoritmo, un programma per computer capace di giocare a scacchi. Nel 2016 è diventato campione del mondo, sconfiggendo i migliori giocatori umani. È velocissimo, programmato tenendo conto delle più sofisticate partite giocate dagli umani nella storia. Il 7 dicembre 2017, però, Stockfish è stato sconfitto da AlphaZero di Google, un programma più lento, al quale i suoi creatori umani non hanno insegnato niente. Si sono limitati a renderlo capace di imparare da solo: in 4 ore, giocando contro se stesso, AlphaZero è diventato più bravo di Stockfish.
Intelligenza artificiale
Qualcuno potrebbe ribattere: che mi importa dei programmi che giocano a scacchi? Mancano sempre di un ingrediente fondamentale: il buon senso! È vero. L’intelligenza artificiale (IA), però, non è un gioco e potrebbe, come ammoniva Stephen Hawking, diventare la più grande opportunità o la peggiore minaccia per l’umanità. Facciamo un esempio: invio una domanda di lavoro o chiedo un prestito in banca. Ricevo una risposta negativa. Chiedo perché, e l’impiegato mi risponde che è colpa dell’algoritmo, che ha deciso sulla base dei dati a sua disposizione.
Chiedo di nuovo perché, e mi risponde che non lo sa, nessuno capisce fino in fondo la logica di un algoritmo capace di apprendimento automatico. Provo la stessa frustrazione di quando una macchinetta per le bibite si blocca dopo che ho inserito la moneta… Che ci piaccia o no, l’IA sta entrando nella nostra vita. «L’apprendimento automatico e la robotica cambieranno quasi ogni ambito professionale», sostituendo non solo i lavoratori di bassa qualifica, ma anche psicologi, medici e avvocati. Lo afferma lo storico Yuval Harari (21 lezioni per il XXI secolo, Bompiani): la rivoluzione tecnologica «potrebbe estromettere miliardi di persone dal mondo del lavoro, creando una nuova enorme classe di individui inutili».
Resistenza emotiva
Molti contestano questa previsione: ritengono, infatti, che la tecnologia creerà tanti posti di lavoro (per gestire le macchine) quanti ne cancellerà. Non so chi ha ragione, ma su una cosa gli esperti concordano: l’innovazione, sempre più veloce, dividerà i destini «di chi è capace di cavalcarla e di chi no» (De Biase, Il lavoro del futuro, Codice). Per cui la domanda vera, specialmente per i giovani, è questa: riuscirai ad avere «la resistenza emotiva necessaria per sopportare il continuo cambiamento di lavoro»? Siccome ogni cambiamento (sociale, climatico, affettivo) è fonte di stress, «miliardi di individui dovranno continuamente reinventare se stessi senza perdere il loro equilibrio mentale». Per tutta la vita. Una sfida pazzesca. Chi si occuperà di chi resta indietro e si lascia andare?
Autostima
Anni fa, un amico mi diede un consiglio: tieniti sempre aggiornato, ogni giorno riserva un piccolo pezzetto del tuo tempo per seguire l’evoluzione di scienza e tecnologia. Se rimani indietro, poi non potrai rimetterti in pari, perché l’evoluzione è troppo veloce. Un consiglio interessante, che vale per i singoli, che rischiano di ritrovarsi esclusi, superflui, irrilevanti per la società. Ma vale anche per le nazioni, le quali per non diventare “Paesi inutili” dovranno partecipare all’innovazione, offrendo ai cittadini servizi che proteggano anche «il loro status sociale e la loro autostima». Infatti, se un cittadino non riesce a riciclarsi, a trovare un lavoro dignitoso, a mettere su una famiglia, cosa gli resta? Rabbia e solitudine, droga e ghetti? Serve un’alternativa.
Comunità
Il 16 febbraio 2017 Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, ha annunciato la nuova missione della sua azienda: evitare la disgregazione del mondo e una nuova barbarie, costruendo una comunità globale con gli strumenti dell’Intelligenza artificiale. In pratica, vuole “spingere” «un miliardo di persone a unirsi in comunità» digitali. Pochi mesi dopo, lo scandalo dei dati degli utenti usati per manipolarne le scelte politiche, ha ridicolizzato il proclama di Mark. Ma l’idea di creare e sostenere cellule positive, isole di umanità, è giusta.
Nei prossimi anni, infatti, per tante persone la ricerca del senso della propria vita e di comunità in cui sentirsi accolte e valorizzate, anche se “perdenti”, «potrebbe diventare più importate della ricerca di un posto di lavoro». Per questo, però, non bastano connessioni digitali, servono contatti reali, comunità “calde”, umane, aperte, capaci di accogliere persone di idee e culture diverse, magari offrendo occasioni di lavoro. Comunità che diano “senso” alla vita dei partecipanti, senza trasformarsi in ghetti o tribù elitarie. Comunità che siano seme e lievito della società di domani.