Guerra giudiziaria come arma politica. Un bene o un male?
Causa ed effetto della diffusa corruzione pubblica, la guerra giudiziaria è la nuova efficace arma scoperta dai politici latinoamericani per sbarazzarsi dei loro avversari.
Giovedì il Parlamento dell’Ecuador ha dato via libera al processo di impeachment al già condannato e incarcerato vicepresidente della Repubblica Jorge Glas, che si dichiara vittima di persecuzione politica – come l’ex presidente argentina Cristina Kirchner – in una chiara guerra di potere tra il primo cittadino Lenín Moreno (che lo accusa) e il suo predecessore e padrino politico di Glas, Rafael Correa.
Intanto, in Perù il presidente Pedro Pablo Kuczynski ha graziato e liberato l’ex capo dello Stato Alberto Fujimori, in prigione per violazione ai diritti umani e corruzione, a scapito di quanto aveva promesso in campagna elettorale, e col sospetto di averlo fatto per scampare lui stesso all’impeachment, barattando la grazia per motivi umanitari (Fujimori è in ospedale) con i voti che l’avrebbero messo fuori gioco in Parlamento. Casi simili sono recentemente accaduti o stanno accadendo in Brasile (tre volte), Guatemala, Honduras, Paraguay…
Sta succedendo anche a tre legislatori. Per esempio, il 22 dicembre un senatore è stato espulso dal Parlamento, per maggioranza, per la prima volta nella storia del Paraguay. Fine del “patto di non aggressione” tra colleghi? Non esattamente, ma comunque il fatto ha avuto conseguenze politiche: il pre-candidado presidenziale che difendeva il senatore ha perso le elezioni. È un segno di maturità di un elettorato che sta uscendo dal sottosviluppo a cui l’aveva condannato una lunghissima dittatura i cui strascichi sono duri a morire.
Le accuse di delitti verso detentori di alte cariche pubbliche – o di chi ha reali possibilità di esercitarle – che partono quasi sempre dal potere legislativo e non da quello giudiziario – sono alla prova dei fatti molto più frequenti oggi di pochi anni fa, e non precisamente perché siano aumentati i disonesti al potere.
Ce ne sono, intendiamoci, ed è ottimo che giudici, stampa e società civile siano all’erta e attivi.
E quando le condanne o le assoluzioni sono frutto di processi limpidi e chiari, non c’è che da esserne compiaciuti.
Se aumentano le accuse, significa che si tollera meno l’illegalità, e questo è un segnale politico forte e un’ottima notizia, ma se è troppo facile eliminare i nemici politici con questo strumento di inibizione, ciò può indicare, in genere, poca “salute democratica”.
I casi sono naturalmente diversissimi da Paese a Paese, ma i denominatori comuni sono: legislazioni con figure penali vaghe, che permettono che la presunzione di colpevolezza si possa applicare con eccessiva facilità, una Giustizia di dubbia indipendenza – vuoi per norme che di fatto la subordinano all’esecutivo, vuoi per “semplice” corruzione –, una classe politica distante da chi rappresenta, con pochi o insufficienti meccanismi di controllo e, infine, un elettorato ancora troppo facilmente preda del populismo. Nella regione si salvano solo, a mio giudizio, solo Cile e Uruguay.
È ovviamente un bene che emergano gli abusi di potere di ogni genere dei governanti e sia dato luogo a procedere, anche a scapito della governabilità o della stabilità economica.
Ma il fatto che troppo spesso basti a far cadere in disgrazia una persona un’accusa partita dalla stampa, diffusa dai media e investigata poco e male, non è un buon segno. Si dirà che c’è sempre il diritto alla difesa e la contromisura della querela per diffamazione.
Purtroppo, però, nell’epoca di Facebook e Whatsapp, l’opinione pubblica si confonde troppo spesso con un tribunale di condotta morale che condanna a priori ogni accusato.
Occorre allora che la società civile, fatta da organizzazioni educative, religiose, sindacali, economiche, culturali, sportive, compia sempre più e meglio il suo ruolo di “coscienza” della società e di “scuola” del bene comune, affinché il civismo e l’etica crescano a partire dagli elettori, controllori diretti o indiretti (via magistratura) della cosa pubblica, e dai futuri elettori, che si preparano a fare la loro parte.
La maggiore presenza attiva giovanile in tanti Paesi della zona fa ben sperare, anche se la strada è ancora lunga e accidentata.