Governo Conte, percorso incerto dopo il voto al Senato
Nella sera del 19 gennaio il Senato ha votato, con doppia chiamata nominale, la fiducia al Governo Conte dopo una lunga giornata di dibattito in aula.
Non è stata raggiunta la maggioranza assoluta dei 161 voti, ma questa non era necessaria e perciò si son rivelati sufficienti i 156 voti ricevuti a favore, contro i 140 contrari e i 16 astenuti di Italia Viva.
Le aule parlamentari sono lo specchio del Paese che rappresentano, ma in questi frangenti si accentuano le frizioni e le intemperanze. Alcuni interventi scadono fino ad accuse personali o battute grevi. Non si offre ai cittadini, spettatori sui media nei social, il volto migliore del lavoro quotidiano dei senatori e deputati, la maggior parte dei quali resta sconosciuto in base ai meccanismi delle leggi elettorali che hanno consegnato le liste alle segreterie dei partiti.
Per un giorno diventano visibili anche i cosiddetti peones e si scopre che esiste un folto gruppo di senatori ormai estranei alla forza politica che li ha eletti, oppure che hanno trovato spazio nelle liste mantenendo la loro autonomia. È a loro (“esponenti delle forze liberali, democratiche e socialiste”) e ai moderati del centro destra (2 senatori di Forza Italia hanno votato a favore e sono stati espulsi dal partito) che si è rivolto Conte per chiedere il sostegno ad un governo indebolito dallo strappo eclatante e atteso da tempo di Matteo Renzi e del suo partito che, con l’astensione, sembra voler giocare il ruolo di garanzia di un esecutivo della non sfiducia.
Come a dire che qualsiasi scelta della maggioranza dovrebbe passare il giudizio del voto incerto del senato, una specie di “forche caudine” permanenti e inaccettabili da qualsiasi governo. In specie da quello italiano che ha già ricevuto l’invito a cercare la stabilità se vuole restare credibile in Europa e affrontare la sfida del Recovery Plan.
Si può definire un nuovo patto per arrivare a fine legislatura solo con la costituzione di un nuovo gruppo tra coloro che nel voto di fiducia hanno espresso un No, facendo intendere di essere disposti a riconsiderare la scelta con un cambio di passo del governo stesso.
Non dovremmo essere costretti a vedere quello che accade in Parlamento come una partita di poker o ridurre tutto ad una questione di antipatia personale. In maniera trasparente gli eletti con il Pd in quota di +Europa e Azione hanno sempre affermato la loro contrarietà all’alleanza con i 5Stelle con toni e argomenti simili a quelli tenuti in serbo, finora, dagli scissionisti renziani del Pd.
Il dissidio è incentrato sulla concentrazione di poteri assunta da Conte e sui criteri di stesura del Recovery Plan che dovrebbe gestire 200 miliardi di euro. Anche per un politologo equilibrato come il professor Paolo Pombeni, ad esempio, esisterebbe un’incongruenza nella prima versione del documento presentato «irritualmente in una comunicazione alla stampa è poi totalmente abbandonato con un giudizio negativo quasi unanime». Anche sulla seconda versione, Pombeni fa notare che esistono pesanti critiche da parte del «commissario europeo Paolo Gentiloni, persona che certo non si può considerare ostile al nostro paese e al governo in carica».
Tra coloro che criticano l’avventurismo di Renzi, che esporrebbe il Paese all’instabilità, vi sono quelli che collegano tale strategia alla consonanza dei voleri di settori della Confindustria ostili a Conte. La destra addebita, invece, al governo di essere portatore di interessi multinazionali ostili all’Italia, mentre nell’area del centro sinistra l’insoffenza verso Giuseppe Conte è più allusiva a centri di potere che lo affiancherebbero.
Di certo, esiste un imbarazzo verso l’eccessivo spazio concesso al suo portavoce, ma in sostanza le componenti della maggioranza che chiedono “una politica più forte” lasciano intendere che, se necessario, potrebbe trovarsi una nuova figura di presidente del consiglio per raggiungere una maggiore stabilità.
La delicatezza delle procedure in corso e dei rapporti con il Quirinale sono legate ai meccanismi di gestione di una crisi non conclamata formalmente, ma sempre incipiente e pronta a portare il Paese alle urne come chiede la destra, Salvini in testa.
Restano da evidenziare con attenzione le vere questioni in gioco, oltre la polemica sul ricorso o meno alle risorse del Mes.