Genova, porto chiuso alle armi
La città di Genova chiude un anno importante vissuto nell’impegno forte e concreto contro la guerra e il transito di armi nel suo porto. Per ben due volte nel 2019 i portuali hanno bloccato le operazioni di carico di armi destinate alla Guardia Nazionale Saudita, il corpo militare di una delle monarchie assolute più reazionarie del Medio Oriente, alleata degli Stati Uniti e artefice dell’invasione militare dello Yemen, dove è in corso una guerra sanguinaria.
La protesta era partita da Genova – Ponte Etiopia dove, aveva attraccato il cargo saudita Bahri Yambu con il suo carico di armi. Immediata la reazione dei portuali, che si erano rifiutati di movimentare il carico di morte, destinato a colpire civili yemeniti.
Con lo slogan “Porti chiusi alla guerra, porti aperti ai migranti” i portuali avevano poi presidiato Palazzo San Giorgio, sede dell’Authority genovese per gridare un secco no all’arrivo, previsto di un secondo cargo gemello del Bahri Jazan, carico di corazzati acquistati in Canada.
Anche quella volta la ditta esportatrice aveva comunicato la sua rinuncia all’imbarco, nonché la decisione di ritirare dal porto gli otto generatori destinati alla Guardia Nazionale Saudita. A fine dicembre nuovamente il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali, insieme ad Emergency, Amnesty International, Assemblea contro la guerra, Genova antifascista, Rifondazione comunista ed altre associazioni pacifiste cittadine ha tenuto un presidio davanti alla Prefettura di Genova per esigere l’interdizione del commercio bellico dal porto della città.
«Chiudiamo i porti alla guerra!» recitava lo striscione. E nel volantino distribuito ai passanti non senza un poco di sano orgoglio c’era scritto che i portuali possono fare la voce grossa nell’ambito della logistica di Genova «perché già lo scorso giugno, col sostegno della Cgil, hanno impedito alle navi della linea marittima saudita Bahri di caricare materiale destinato ad alimentare la guerra in Yemen, «la più sporca e criminale di quelle in corso», si leggeva sul volantino.
E ancora: «Le petromonarchie del Golfo sono infatti tra i principali ed efferati consumatori di tecnologia militare occidentale sia di marca statunitense che europea ed italiana».
E ricordavano anche un particolare curioso: dopo il blocco di giugno il presidente della regione, Toti, era sceso in campo dicendo che «è assurdo volere che non si imbarchino questi prodotti, mentre in Liguria molte migliaia di persone lavorano per Fincantieri che fa navi militari e sommergibili, per Leonardo che fa radar e missili, per Oto Melara che fa cannoni navali e mezzi blindati…».
I portuali riportavano la risposta di papa Francesco ai giornalisti sul volo di ritorno dal viaggio papale in Giappone dove Bergoglio dice: che quando le autorità politiche parlano di pace e trafficano in armi, si tratta di «ipocrisia armamentista», ribadendo appunto che «i Paesi europei parlano di pace» ma «vivono di armi», ma soprattutto ha detto che «i lavoratori del porto di Genova sono stati bravi».
Forte dunque l’impegno degli uomini del Collettivo Autonomo che hanno fatto sapere che «o la guerra esce dal nostro porto o le conseguenze – innanzi tutto economiche – saranno di tutti. Non siamo disposti a tollerare che un rifornimento continuo ed essenziale alla guerra, quindi alla morte e miseria per milioni di persone, abbia a Genova una sua tappa».
La nave saudita in arrivo a gennaio pare abbia cancellato il passaggio dal porto di Genova. Per febbraio fanno sapere «saremo nuovamente pronti a bloccare i varchi con l’aiuto della città e chiederemo alla Cgil un nuovo sciopero per fermare queste navi della morte. Il nostro motto è non un passo indietro».