Il Genfest parla tagallog
Questa volta il Genfest, la grande manifestazione organizzata dai Focolari che riunisce migliaia di giovani in vista di capire «com’è che va il mondo» − come cantava il cantautore sulle parole del filosofo (Battiato e Sgalambro) −, fa tappa a Manila, al World Trade Center. La scelta è caduta sull’arcipelago filippino, dopo l’edizione ungherese del 2012. Dai cinque continenti stanno arrivando giovani e giovanissimi con un programma chiaro: superare i confini, quelli personali, quelli del proprio gruppo e persino quelli della comunità internazionale. Stamani è stato tagliato il nastro d’inaugurazione, alla presenza di autorità civili, religiose e della società civile. Nel pomeriggio si aprono le danze, non solo metaforicamente.
Il Genfest è la “festa dei Gen”, cioè la “Generazione Nuova” dei Focolari, nata nel grande calderone rivoluzionario degli anni Sessanta, precisamente nel 1967. Ma nel termine Genfest c’è anche “la gente in festa”. Ed è questa la caratteristica prima della manifestazione: non è tanto un incontro identitario nel senso esclusivo del termine, quanto piuttosto inclusivo, cioè aperto a chiunque pur se promosso da una organizzazione particolare. Migliaia di giovani riuniti per fare in qualche modo un check sulla salute propria, della generazione a cavallo dei due millenni, e anche del mondo. Sì, nientemeno che del mondo. Una sorta di Global Forum, ma non dei banchieri e degli uomini potenti, quanto dei giovani. Perché il Genfest sin dalla sua prima edizione ha avuto un carattere eminentemente internazionale.
Ripercorrendone la storia, in effetti la dimensione mondiale emerge prepotente. A cominciare dalla prima edizione del 1973 (in realtà già nel 1972 vi fu un tentativo simile), in quel della cittadella (giustamente internazionale) di Loppiano, in un anfiteatro naturale fiorito e inondato di ragazzi e ragazze vagamente “figli dei fiori”. Sotto i loro cappellini conici di cartone bianco, erano ancora ebbri di ’68 e di nuove libertà, idealisti di un mondo unito quando ancora non si parlava di globalizzazione. Nel 1974 ci si mise la pioggia a cambiare i programmi: non ci fu un Genfest unico nell’anfiteatro di Loppiano, diventato un lago, ma ci si riunì in piccoli Genfest nei pollai della cittadella, nottetempo svuotati dai polli che avevano la loro dimora in quei locali. Il carattere “povero” del Genfest emerse prepotente, con quell’Operazione Africa che i Gen volevano fosse un atto di giustizia nei confronti della troppo vasta ingiustizia nei confronti del continente nero.
Il 1975 segnò un upgrade notevole, con il trasferimento nel catino non più naturale del Palasport di Roma, magnifico esempio di architettura dovuto al grande Nervi. Era l’Anno Santo, dal mondo intero arrivavano frotte di giovani: quale occasione migliore per tuffarsi nel mondo multicolore dei Cinque Continenti? Si cominciò a intuire che la grande spinta al rinnovamento che era nata nel Concilio Vaticano II e nel ’68 studentesco doveva concretizzarsi in iniziative più locali, più praticabili. La Guerra Fredda non doveva spegnere la capacità creativa dei giovani. Stesso discorso per il Genfest che forse più rimane nella memoria, quello del 1980, allo Stadio Flaminio di Roma: 40 mila giovani al freddo e sotto la pioggia, ma un calore incontenibile. Le gigantesche coreografie che spaziavano sul prato dello stadio dicevano un mondo provato da lunghi conflitti, e tuttavia capace ancora di cercare la riconciliazione, il perdono e la pace. Un gigante di cartapesta costruito da un gruppo belga presente alla manifestazione, il Moloch della violenza potente, s’afflosciava dinanzi alla debolezza di 40 mila Davide fragili ma determinati.
1985: “Molte vie per un mondo unito”, come a dire: «Sì, il mondo unito va bene, è un ideale forse un po’ utopico, anzi certamente, ma comunque esiste in piccolo, direi in vitro, ovunque lo si riesca a vivere in modo concreto, non nel sogno ma nella cruda e dura realtà». Ricordo testimonianze di giovani palestinesi, di ragazzi e ragazze dell’Africa subsahariana, di rappresentanti dell’Irlanda del Nord e della Colombia, che raccontavano delle guerre vissute controcorrente, quasi che non esistessero e che a brillare fosse la pace, nei cuori innanzitutto. Edizione 1990: il muro di Berlino è appena caduto, nessuno può fare come se fosse ancora in piedi. Subentra dopo la Guerra Fredda l’euforia sottile di capire che in fondo il mondo si sta rimpicciolendo e che la globalizzazione, anzi la mondializzazione, può anche avere effetti positivi, come testimonia l’ospite d’eccezione, quel Giovanni Paolo II che certamente ha mutuato dal Genfest degli elementi che sono poi serviti per quelle Giornate Mondiali della Gioventù che hanno raggiunto milioni di giovani nel mondo.
Il 1995 segnò il trionfo dei collegamenti mediatici mondiali ante litteram, quasi a dire che la collaborazione internazionale, la fratellanza universale, persino il sogno di un mondo più unito poteva trovare nella rivoluzione digitale un modo per avanzare più speditamente. Quindi il 2000, di nuovo un anno santo, di nuovo lo stadio Flaminio, ma con una nota particolare, più personale e intima, quella di Chiara Luce Badano, giovanissima che seppe trasformare una malattia spietata in un trampolino verso la piena realizzazione di sé. Forse il simbolo di un passaggio epocale, quello da generazioni più estroverse, sensibili ai problemi sociali, a generazioni più introverse, ma più attente anche alla realizzazione di sé. Il “segreto” dei giovani del Genfest si faceva esplicito dopo trent’anni di incontri pubblici.
Poi la “pausa di riflessione”, soprattutto per la morte di colei che aveva voluto il Genfest e lo aveva sempre sostenuto, quella Chiara Lubich che aveva saputo trasmettere a centinaia di migliaia di giovani nel mondo la voglia e la determinazione di cercare il meglio e non il peggio, in sé e attorno a sé. Ed ecco Budapest 2012, in quell’Europa dell’Est che si risvegliava da mezzo secolo di comunismo per dire che sì, l’uomo può avere grandi ideali, ma che la dimensione più spirituale della vita non va dimenticata mai, pena scivolare in pericolose derive in cui la passione per l’umanità diventa solo un calvario senza risurrezione.
Ed ora Manila 2018, “Beyond Borders”, cioè «non stiamo a credere che i confini siano ineluttabili e fonte di divisione – come mi spiega decisissima una giovane dalla pelle scura di queste parti − . Possono anche essere l’indicazione di una diversità che arricchisce e non separa».
Dinanzi al grande World Trade Center di Pasay-Manila, un ragazzo dalla pelle chiara, diciassettenne, filosofo e italiano, mi ricorda altresì che il nome è uguale a quello delle Torri Gemelle di New York: «La storia è segnata dalle tragedie, ma viene costruita soprattutto dalle ondate di impegno di intere generazioni. Quella nostra – io sono nato l’anno di Ground Zero – deve fare i conti con un mondo che crea continuamente nuovi confini, nuovi border, nuovi “ismi”. Noi cerchiamo di non rimanere invischiati nell’ondata di nuovi settarismi, terrorismi, nazionalismi, vittimismi, estremismi… Siamo qui per ricordarcelo e ricordarlo a chi vuole sentirci».