Foibe, io ricordo
Con la Giornata del ricordo si rinnova la memoria della tragedia degli esuli italiani e di tutte le vittime delle foibe. Una dolorosa pagina di storia del secondo dopoguerra che rimanda alla complessa vicenda del confine orientale con gli eccidi di un grande numero di persone (prevalentemente italiani) uccise dai titini e gettate nelle cavità naturali (chiamate foibe) presenti sul Carso. Vittime che i familiari, spesso, non sanno ancora dove andare a piangere. Come nel caso del beato Francesco Bonifacio, scomparso l’11 settembre del 1946. Gli esuli istriani, fiumani e dalmati consegnano i loro ricordi a nipoti e pronipoti, ma nei libri di storia è ancora difficile reperire la complessa vicenda del confine orientale che in pochi anni, nel secondo dopoguerra, ha subìto numerosi mutamenti.
Nella primavera del 1945 per l’Italia è finita la guerra e, sconfitta, deve rinunciare alle colonie e cedere territori a Francia, Grecia e alla Repubblica federale jugoslava, che guadagnerà la città di Fiume, la Dalmazia (versante marittimo delle montagne balcaniche), gran parte dell'Istria, del Carso triestino e goriziano, e l'alta valle dell'Isonzo. Nel 1952 viene ratificato il trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio del 1947 tra gli sconfitti e gli alleati. I territori dell’Istria e della Venezia-Giulia tra il fiume Quieto e il fiume Timavo si trovarono – divisi in zona “B” e zona “A” – a far parte del Territorio libero di Trieste: uno Stato neutrale con Trieste capitale. Un governo civile e militare anglo-statunitense per la zona A e un’amministrazione civile e militare jugoslava per la zona B. Il 5 ottobre del 1954 venne firmato a Londra un memorandum d'intesa in cui Italia e Jugoslavia si spartivano provvisoriamente il territorio, con il passaggio della zona A (corrispondente all’attuale provincia di Trieste) all'amministrazione civile italiana e la zona B a quella jugoslava.
Accordi, memorandum, intese fanno pensare a un’azione politico-chirurgica ben anestetizzata, ma la grande Storia custodisce piccole storie vere di uomini e donne, affetti che spesso non trovano spazio nei trattati internazionali. Storie come quella di Bianca Maria che aveva sedici anni quando con la sua famiglia ha lasciato Pirano, sua città natale. Marisa, sua cugina, ne aveva solo sette quando lasciava una delle tante città sul litorale istriano e dalmata che con il leone di San Marco testimoniano la storica appartenenza alla Repubblica Veneta.
«Da Pola e della Dalmazia – mi racconta Bianca Maria – sono partiti tra il 1947 e il 1949 soltanto con quello che indossavano. Noi che siamo partiti nel 1954 abbiamo avuto un momento per prepararci e qualcosa abbiamo potuto portare anche dalle nostre case. I miei genitori e i miei zii avevano concordato con un falegname per la costruzione di cassoni per contenere gli oggetti di casa e la biancheria; tutto era stato preparato e lavato. Si poteva mettere solo l’indispensabile. Ho lasciato una scatola di legno con i miei ricordi e i miei quaderni in soffitta a Pirano. Arrivati a Trieste, dopo aver sistemato e scaricato il camion siamo andati alla sede dell’Opera profughi che ci ha assegnato la nostra destinazione nel campo profughi di Opicina, sull’altopiano triestino».
Nel campo profughi furono sistemati in baracche di ferro, costruite dai soldati tedeschi durante il conflitto mondiale, per far transitare i prigionieri da deportare in Germania. Chiedo a Marisa qual è il primo ricordo che le viene in mente. «Avevo sette anni. Ricordo poco. Nelle baracche avevamo dei letti a castello. Mia madre l’ho sentita raccontare altre volte questa storia e sempre lei ha il sorriso sul volto. Le chiedo come fa, e ancora mi risponde come ogni volta. “Ma non è un ricordo triste perché a noi bambini tutto veniva presentato come un gioco: eravamo protetti dai nostri genitori».
Bianca Maria era abbastanza grande per comprendere diversamente cosa stava succedendo. Per lei «ricordare è rivivere momenti molto tristi, come il pianto dei nonni. Un’esperienza di vita fin allora molto serena di amicizie, di luoghi. Un’esperienza difficile da spiegare, di sofferenze generate non solo da questioni politiche che abbiamo dovuto subire, ma anche dall’invidia e dal risentimento di stessi compaesani». Le chiedo che cosa significhi ricordare oggi. «Raccontare e ricordare oggi la vicenda degli esuli istriani e dalmati è che l’invidia, l’odio e la cattiveria non hanno solo identità politiche e devono essere guarite nel cuore dell’uomo».
In giornate come questa, a me, che l’esodo non l’ho vissuto se non nei ricordi dei familiari, capita di pensare che la vita può essere ingiusta, la storia incomprensibile. Sono figlio di quegli esuli. Per queste vicende sono nato a Trieste e in giornate come questa chiudo gli occhi e rivedo i luoghi in cui si è formata la mia famiglia, in cui ritorno volentieri, da straniero, ma mai da estraneo.
Oggi apro gli occhi e vedo uomini e donne dalle ferite rimarginate, riconciliati con la vita e con la storia. Uomini e donne, ricchi di una fede semplice e sincera, che mi hanno insegnato, primi tra tutti, che radicati nel valore dell’unità familiare si può sempre ricominciare.