Fase 2, come guardare al futuro tra pessimismo e ottimismo realistico
La cosiddetta Fase 2 dell’emergenza coronavirus è cominciata. Gli italiani hanno bisogno di ripartire, si parla di crisi economica, prospettive incerte, delle difficoltà lavorative di tantissime categorie. Si chiede allo Stato di sostenere i soggetti economicamente fragili e nonostante tutti gli sforzi, probabilmente, non basta.
Ci stiamo scontrando con sentimenti di impotenza e con limitazioni realistiche, tutto questo inevitabilmente ci porta ad avere un umore depresso, a provare scoraggiamento e ansia. Oltre alla presenza di uno Stato sociale e alla solidarietà, ci sono sicuramente altre risorse che possiamo riscoprire e attivare. L’atteggiamento mentale in questa fase è fondamentale.
L’uomo ha bisogno della dimensione del futuro, ogni qualvolta questa viene intaccata dall’assenza di speranza si disorienta e l’angoscia prende il sopravvento. Occorre che ciascuno di noi sia protagonista di questo presente, faccia leva sulle proprie competenze e attitudini, compartecipando a reinventare questo nuovo “risorgimento”.
L’ottimismo di per sé non ci salverà, ma le idee e le azioni determinate da uno sguardo ottimista, forse, sì!
La perdita di speranza legata al pessimismo è stata anche definita dallo psicologo americano Martin J. Seligman come “impotenza appresa”, cioè la resa incondizionata alle situazioni spiacevoli, atteggiamento che fa scivolare spesso nella depressione. Nel pessimismo patologico ci si sente perseguitati da eventi negativi, dal “capitano tutte a me”, il passato è pieno di cattivi ricordi, il presente è negativo e il futuro non può che preservare brutte sorprese.
Il pessimismo è un atteggiamento di sfiducia nei confronti degli altri e della vita, è un’attitudine a vedere il mondo in modo negativo, con la convinzione che insuccessi, frustrazioni e fallimenti siano perenni e le cose non possano che peggiorare.
L’ottimismo, invece, è un atteggiamento di fiducia in se stessi e negli altri, di speranza nel futuro, ma è strettamente legato all’abilità di governare i processi mentali e di guardare alle cose per quello che sono, ascoltando i feedback che provengono dall’ambiente. Parliamo di un ottimismo realistico che non è illusorio, non nasce dall’autoinganno, ma dalla capacità di focalizzarci sugli aspetti favorevoli dell’esperienza, accettando i limiti della realtà.
Questo ottimismo nutre la speranza e dà vita ad azioni, all’impegno e a motivazioni. L’ottimismo ci serve a superare le avversità, a supportare le incertezze e ricercare le opportunità, è un vero e proprio elisir di benessere psico-fisico. Bisogna ben distinguere l’ottimismo sano dall’incoscienza. Il vero ottimista riconosce i limiti e le difficoltà, e non si ferma a quello, ma li integra in una visione più ampia. Soprattutto non generalizza l’evento negativo in eterno, le esperienze di fallimento possono essere reali, ma non serve generalizzarle pensando che “è sempre così”.
La prima ricchezza del fallimento è che da esso possiamo imparare, ma per riuscire a cogliere la lezione che ci sta insegnando occorre stare nell’emozione che ci provoca, in quel negativo: solo se siamo capaci di sostare in quel sentimento possiamo imparare qualcosa di rilevante per il nostro percorso. Importante, dunque, non farsi rapire dall’ottimismo irrealistico, sovrastimando in modo illusorio la capacità di raggiungere un risultato.
L’ottimismo irrealistico può essere anche una difesa contro le avversità della vita, può esserci una forte motivazione, un forte desiderio che offusca gli ostacoli, la percezione di essere invincibili può creare problemi come il pessimismo, poiché sovraespone.
L’ottimista realistico guarda alla complessità e ricerca soluzioni innovative, pensiamo per esempio a tutte quelle aziende d’abbigliamento che si sono convertite per la produzione di mascherine. In questo momento particolare le nostre scelte sono orientate da questi atteggiamenti mentali, da credenze e pensieri sul mondo, esserne coscienti è il primo passo per trovare la strategia opportuna di ripartenza.
La parola, strategia, mi sembra un’altra parola chiave. Non stiamo in balia degli eventi, aspettando di capire come andrà il vento, proviamo a definire un piano d’azione per affrontare le avversità. Nel momento in cui riprenderemo il timone della nostra nave, l’ansia si abbasserà e ci sentiremo capaci di agire per affrontare la tempesta. Cosa ci può aiutare? Studiare la trasformazione in atto, comprendere i nuovi bisogni della società che cambia, fare un bilancio delle proprie competenze e integrare tutto questo in modo creativo. Essere flessibili: chiedersi come può la propria competenza essere d’aiuto in questo momento, come può creare valore? Come si possono riutilizzare le proprie competenze in nuovi contesti? Non dimenticarsi mai del proprio network, definire gli alleati (attenzione perché il pessimista non vede alleati); scrivere su carta tutti i nomi dei contatti della propria rete e mantenere dei buoni rapporti con loro.
Qualche anno fa il sociologo Domenico De Masi nella sua pubblicazione “Lavoro 2025” ha raccolto una serie di studi e previsioni sulla trasformazione del lavoro, in particolare su come i progressi tecnologici e la globalizzazione avrebbero modificato l’organizzazione del lavoro. Rileggendo alcuni passaggi mi sembra che la pandemia da coronavirus abbia fatto fare uno scatto di velocità a questa trasformazione. Ciascuno di noi che sia un free lance, un manager, un giovane che si accinge al mondo del lavoro, che sia un commerciante o un dipendente ha delle sfide da affrontare.
L’obiettivo sfidante ha bisogno di competenza, di una visione del futuro e di flessibilità per imparare dagli ostacoli e trasformarli in opportunità. Possiamo arrabbiarci contro i massimi sistemi o contro i leader, oppure, trovare nuove soluzioni.
Se studiamo le biografie di tanti uomini che hanno fatto la storia e raggiunto grandi risultati, troveremo cadute e fallimenti, ostacoli e limiti, a volte anche delle situazioni favorevoli, ma ciò che fa la differenza sono l’impegno e la determinazione.