Esercizi di… resurrezione
C’è questo brano del Vangelo che mi lascia ogni volta attonito: Emmaus. Dopo anni vissuti con Gesù, i discepoli non lo riconoscono. Il dolore della sua morte è sceso su di loro come una ombra, oscurando pensieri, affetti, ricordi. Si può diventare così estranei dopo essere stati talmente intimi? Il dolore, la disperazione fa questo? E poi: erano loro a non riconoscerlo o era Lui ad aver cambiato aspetto?
Ultimamente ho riletto questo brano in una prospettiva terapeutica. La parola greca therapeia deriva dal sostantivo therapon: servo, compagno e dal verbo therapeuo: essere servitore, prendersi cura. La storia la conosciamo, ma va ripercorsa, perché non è una storia, è un cammino: da Gerusalemme al villaggio di Emmaus, e ritorno.
Due discepoli camminano e parlano degli eventi drammatici degli ultimi giorni. Sono tristi, scorati, impauriti. Non doveva andare così. Non sappiamo dal testo cosa stiano andando a fare a Emmaus, se stiano fuggendo. Sappiamo solo che, alla fine della storia, tornano indietro: a Gerusalemme.
Lungo la strada li affianca un uomo, inizia a camminare con loro. Gli chiede di cosa stiano parlando. Si fa raccontare. I discepoli parlano della condanna a morte e crocifissione di Gesù, il Maestro che avrebbe dovuto liberare Israele. Dicono che le donne hanno trovato il sepolcro vuoto e hanno avuto un’apparizione angelica. Ma loro non hanno visto alcun angelo, né tantomeno il Maestro. Dopo averli ascoltati e accolto la loro desolazione, continuando a camminare al loro fianco, inizia a mostrargli quello che è sotto i loro occhi, ma loro non vedono. Cita, rilegge la Scrittura, i Profeti, gli spiega che è tutto parte di un piano.
Intanto è sceso il crepuscolo, i discepoli sono quasi arrivati al villaggio, l’uomo fa “come se devesse andare più lontano”: è bella questa esitazione, si presta a molte interpretazioni. Forse l’esitazione è lo spazio in cui l’altro può chiedere il nostro aiuto, la nostra vicinanza. I discepoli insistono perché resti. Lui rimane, si siede a tavola con loro, benedice il pane, lo spezza e loro vedono, capiscono. E in quell’istante Lui scompare.
Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?
I discepoli tornano a Gerusalemme per annunciare che hanno visto il Risorto. Hanno visto la resurrezione: della loro vita. Questo è un racconto di cura. Si capisce meglio, scomponendolo in sette azioni che il Risorto compie nei riguardi dei discepoli:
1) li affianca,
2) cammina con loro: condivide un tratto di strada, una direzione,
3) li interroga, gli fa raccontare la propria storia drammatica,
4) li ascolta,
5) rilegge la loro storia personale, inquadrandola in quella dell’umanità,
6) si ferma per condividere la cena: l’agape, e per benedire,
7) sparisce, perché continuino la strada da soli.
Queste sette azioni sono therapeia. Credenti e non credenti, discepoli e maestri, attraversiamo tutti crisi di senso, disastri esistenziali che ci sprofondano in un sepolcro, dove le cose, le persone appaiono estranee, sbagliate. Conosciamo la morte, anzi: le morti, molto meglio delle resurrezioni. E cerchiamo (se ne abbiamo la forza) una terapia: qualcosa che ci aiuti.
Qualcuno che ci affianchi e cammini con noi nel tratto più triste della strada, che ci ascolti, condivida il nostro sconforto, la mancanza di visione, di futuro, di senso. Qualcuno che ci aiuti a rileggere la nostra microstoria nella macrostoria dell’umanità: a riscoprire una fratellanza con tutti quelli che camminano, soffrono, vorrebbero credere, ma non ci riescono. Qualcuno che ci parli di storia, scrittura, sacra e non, di letteratura, in cui riscoprire il comune destino del genere umano: un calvario, una morte e una resurrezione.
Qualcuno che poi ci lasci proseguire da soli, altrimenti non siamo davvero risorti.
Nel racconto di Emmaus Gesù è il therapon: il compagno di viaggio che si prende cura dei viandanti. Se ne prende cura così bene, che alla fine i viandanti cambiano radicalmente direzione: tornano indietro, a Gerusalemme, ad annunciare il Risorto. Nessuno risorge da solo, neanche Gesù lo ha fatto (è stata opera dello Spirito e del Padre). Anche la resurrezione – come la fragilità – si esercita al plurale.
Ognuno può fare un esercizio di resurrezione, non della propria, ma di quella altrui: può essere per l’altro therapon, nel momento in cui lo affianca, si gira dalla sua parte, vede il mondo con i suoi occhi, cammina con lui (magari a tentoni), condivide (strada, tavola, pasto), ascolta, s’immedesima, cerca (nella letteratura, nella cultura, nella fede) parole di conforto, di umanità, di luce.
Così facendo, può accadere che appaia un terzo, quel terzo a cui allude Thomas Eliot nei versi di The Waste Land:
Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme
Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca
C’è sempre un altro che ti cammina accanto.
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Gli altri esercizi:
Esercizi di… demitizzazione (della vecchiaia)
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