Decreto sicurezza e periferie
La sociologa Chiara Marchetti è intervenuta, assieme all’urbanista Carlo Cellamare nella discussione del laboratorio parlamentare aperto promosso dal Movimento politico per l’unità italiano in collaborazione con Città Nuova (la rivista di novembre dedica largo spazio ai lavori della commissione di inchiesta sulle periferie promossa dalla Camera nella scorsa legislatura).
Come ha detto il presidente di tale organismo di inchiesta, Andrea Causin, ora eletto in Senato con il nuovo Parlamento, si è trattata di un’esperienza autentica, capace di far cambiare idee e prospettive perché l’esame è stato fatto sul campo, spesso tornando sugli stessi luoghi fuori dai momenti ufficiali. Evidenze che mettono in luce, ad esempio, la necessità di un piano di edilizia pubblica a consumo di suolo zero e di un intervento relativo all’integrazione delle persone migranti lontano da ogni riduzione della complessità alle pulsioni di carattere securitario. Per restare sul tema delle periferie come traccia da approfondire per una buona politica abbiamo rivolto alcune domande alla docente Chiara Marchetti dell’università di Milano, attiva tra l’altro a Parma nella campagna di Ciac “Diritti non privilegi” di integrazione dei migranti e richiedenti asilo.
La commissione periferie ha fatto emergere alcune evidenze molto note per chi lavora sul campo. Quali sono i punti significativi da cui ripartire?
La relazione della commissione mette bene in evidenza le contraddizioni che vivono le nostre periferie: luoghi insicuri e degradati da un lato, ma anche contesti con una grande vitalità, autorganizzazione e capacità di esprimere resilienza. È stato sottolineato come la sicurezza deriva non tanto (o non solo) dall’applicazione di un approccio repressivo e punitivo, ma piuttosto da politiche preventive che mettono al centro la coesione sociale e la partecipazione. Questo vale per i vecchi abitanti e per i nuovi arrivati. Credo che lavorare sulle cause profonde del degrado (povertà, marginalità sociale, assenza di servizi, solitudine) sia più complesso, ma nel medio-lungo periodo risulti assolutamente più produttivo.
Quali sono invece gli aspetti da approfondire con maggiore attenzione per migliorare la ricerca di soluzioni adeguate alle emergenze dei nostri territori?
La commissione periferie invoca l’esigenza di un “piano Marshall”, con risorse e investimenti consistenti che permettano di passare dalla logica del “progetto” a quella del “piano”, della programmazione. Mi sembra un input assolutamente centrale e necessario. Allo stesso tempo credo che l’esperienza delle periferie, ben rilevata dal lavoro della commissione, metta in evidenza anche la necessità da parte delle istituzioni di riconoscere quanto già sta avvenendo nei contesti locali, che chiedono spesso – oltre che fondi – riconoscimento e legittimità a praticare soluzioni flessibili (utilizzo di spazi, azioni di presidio “dal basso”, attività economiche e produttrici di reddito che si collocano nell’informalità). Azioni che facilitino la messa in comunicazione e la collaborazione di porzioni di comunità – straniera e autoctona – che spesso si vivono come concorrenti nella classica “guerra tra poveri”, ma che in molti casi stanno già dimostrando di riuscire a lavorare insieme e individuare soluzioni che portano beneficio a tutti. Hanno solo bisogno di maggiori spazi di agibilità e riconoscimento istituzionale.
Cosa comporterà l’applicazione del decreto sicurezza a partire dal ridimensionamento degli Sprar in generale e per l’esperienza Ciac di Parma in particolare?
Il decreto sicurezza sta già minando alle radici l’esistenza di un sistema territoriale in grado di tutelare al contempo i migranti forzati accolti e le comunità locali. Se sarà convertito in legge, il danno sarà ancora superiore. La decisione di rompere la continuità dell’accoglienza tra chi è in procedura di asilo prima (che rimarrà in grandi centri privati solo con servizi minimi) e i pochi che verranno riconosciuti titolari di protezione internazionale (che potranno accedere allo Sprar) avrà ripercussioni molto negative per i richiedenti asilo che vivranno in enormi parcheggi, di fatto privi di diritti, per mesi, ma anche per i territori, perché persone meno tutelate e non accompagnate in un percorso di integrazione da personale qualificato e in diretta connessione con i servizi pubblici di welfare sono sicuramente più esposti al rischio di cadere in circuiti di marginalità, sfruttamento e persino illegalità. Inoltre il decreto sicurezza, con l’abrogazione della protezione umanitaria e l’impossibilità di convertire in permessi di lavoro quei “permessi speciali” che rimangono come ultima spiaggia per chi si vedrà diniegare la protezione internazionale getteranno nell’irregolarità migliaia di persone. Un’irregolarità prodotta dallo Stato, senza via di scampo: perché non ci sarà modo di regolarizzarsi successivamente e perché la stessa minaccia di un rimpatrio forzato rimane una soluzione per pochi, anche questa usata come bandiera per ottenere consenso nel brevissimo periodo. E a perdere la possibilità di regolarizzarsi attraverso un permesso per motivi umanitari saranno proprio le categorie più fragili, che difficilmente rientreranno nelle strette maglie dell’asilo politico: neomaggiorenni, giovani donne vittime di tratta o madri sole, persone vulnerabili bisognose di supporto psicologico e sociale. Tutto questo non porterà nessun vantaggio ai cittadini italiani e anzi andrà a pesare soprattutto in quei contesti già fortemente sotto pressione, come le periferie urbane.