Cristiana Capotondi, la modernità di Chiara Lubich
Che metodo hai usato per entrare nella parte del personaggio di Chiara Lubich?
Non penso esista un metodo particolare. Chiara Lubich è una donna realmente esistita per cui avevo molti appigli, ho ascoltato i racconti di persone che hanno vissuto con lei, sono stata a casa sua a Rocca di Papa, ho visitato la sua stanza, ho capito il modo in cui ragionava anche da piccoli dettagli. Per esempio; se gli veniva regalato un abito ne dava subito via un altro immaginando la persona a cui quel vestito sarebbe arrivato. Aveva un senso quotidiano del dono, di un’economia circolare che nelle “cittadelle” da lei fondate funziona. Ho provato ad immaginare una giovane donna che nel 1943, a 23 anni, aveva il desiderio di far qualcosa per la propria città con un misto di concretezza e anche di sogno. Cercava l’altezza, di volare alto, Dio per chi crede, occupandosi e mettendo le mani nella disperazione di quegli anni. Mi è piaciuta questa sua componente di forza ma anche di fragilità. Trovo che sia una donna completa che abbia tante qualità. Ho cercato di riportare sullo schermo e raccontare questa figura così importante del secolo scorso stante la stima che ho di questo personaggio.
Ti sei preparata anche con qualche lettura di suoi libri o scritti?
Ho letto delle lettere bellissime che scriveva alla madre, alla sorella, alle sue prime compagne di inizio percorso. Trovo che sia una figura molto moderna che trapela anche attraverso i suoi scritti e pensieri. Mi piace molto il suo senso dell’amore, del dare, il suo desiderio di pacificazione, di mettere insieme tutte le confessioni religiose, di dialogare, di ascoltare, di confrontarsi, di prendersi cura dell’altro. Trovo un non so che di moderno nel suo messaggio proprio nella situazione in cui ci troviamo di pandemia che ha riguardato tutti, nessun Paese escluso. Trovo il suo sia un pensiero necessario, sia una chiave di accesso alla politica questo tipo di modo di guardare il mondo e gli altri. In lei intravedo questo discorso laico di apertura e di considerare l’altro come te stesso. È un bellissimo messaggio ancor oggi inascoltato. Ci sono tante persone del Movimento dei Focolari in tutto il mondo ma questa capillarità di pensiero mi sarebbe piaciuta anche per affrontare questo periodo storico. È una donna che anticipa molto i tempi ma il suo messaggio a livello più ampio, culturale, come rivoluzione delle relazioni tra le persone deve ancora avvenire. C’è ancora tanto lavoro da fare per chi porta avanti questi valori.
C’è una fortunata coincidenza. Ricorderai che ti avevo invitato al Family fest nel 2005 in piazza del Campidoglio per leggere un brano di Igino Giordani, co-fondatore con la Lubich dei Focolari. Ti sei chiesta come mai hanno scelto te per interpretare questa parte. Che caratteristiche servivano e che hanno trovato in te?
Penso servisse una donna con una semplicità luminosa, con un suo senso di attrazione per le cose semplici, per le cose dell’anima, spirituali. Non sono stata religiosamente scelta, però ci sono dei tratti dell’anima di Chiara che sono anche miei perché ci sono delle cose di lei che mi commuovono e quindi vuol dire che le ho dentro. Forse qualcuno ha notato questo. A parte la partecipazione al Family fest, ho una storia particolare. Ho cominciato questo mestiere tanti anni fa, a 12 anni, quando il mio parroco della basilica di Santa Maria in Trastevere, don Vincenzo Paglia, oggi vescovo, mi vide recitare con i miei compagni boy scout e disse a mio padre: «Potrebbe fare l’attrice!». Per cui mi sento dentro questa storia di Chiara Lubich. Fra l’altro appena ho saputo che avrei interpretato Chiara ho subito chiamato mons. Paglia che ne è stato molto contento. In questo racconto vedo anche un senso del mio percorso. Per altro sono figlia anche di un matrimonio misto e mia mamma, a sua volta, è figlia di un matrimonio misto. Ebraismo e cattolicesimo nella mia famiglia si sono sempre parlati e abbiamo sempre vissuto con cura e attenzione la religione dei nostri genitori. Sono abbastanza relativista rispetto al credo religioso invece la spiritualità è qualcosa che mi tocca nel profondo e Chiara raggiunge delle altezze spirituali speciali.
Qual è stata la difficoltà maggiore nell’interpretare questo personaggio?
Parlare d’amore mentre le persone muoiono. Bisognava arrivare al fondo della disperazione e del dolore per poi ricercare il cielo: questa era la mia idea e spero di esserci riuscita. Devo dire che il regista Giacomo Campiotti è una persona con un animo particolare, di grande sensibilità, di grande attenzione a queste tematiche e ci ha veramente condotte sia me che tutte le attrici che hanno interpretato le prime compagne di Chiara, Dori, Giosi, Natalia, Graziella.
Una donna giovane. Da sola, povera, durante la guerra, con il sogno di realizzare la fratellanza universale proprio mentre ogni ideale crollava sotto i bombardamenti. Cosa c’è di profetico in questo messaggio?
Non so se lei si rendesse conto della portata del suo messaggio. Forse ha pensato che sarebbe stato bello rimanere insieme e che, rispetto al dolore e la disperazione da vivere individualmente, la comunione avrebbe potuto alleviare gli animi. Quel poco che tutti avevano insieme diventava tanto, e non aveva più senso con le case bombardate, le famiglie distrutte, proteggere il proprio piccolo tesoro. È l’idea di mettere tutto insieme, di allargare gli animi, di liberarsi dagli orpelli, dal mio, dal tuo, dal senso del possesso, con tutte le conseguenze culturali che ne derivano. Non so se lei avesse coscienza della rivoluzione che stava portando: penso che ad un certo punto lei l’abbia avuta ma non all’inizio quando era così giovane.
Nella fiction emerge “un santino”, “una maestrina” o una donna a tutto tondo, anche con dei limiti e dei difetti?
È una donna con i suoi difetti, è una maestra che ha una passione per l’insegnamento, per l’ascolto, capendo dallo studente come ha bisogno di essere formato. Il concetto negativo della maestrina abbiamo cercato di evitarlo. Scopre vivendo quello che pensa faccia star bene le sue amiche, ha una forza e capacità di coinvolgimento, è irrefrenabile, è incontenibile.
C’è qualche aneddoto sul set che vuoi ricordare…
Penso all’affetto di tutti, alle persone del Movimento dei Focolari che sono state con noi, che ci hanno dato una mano, che ci hanno ospitato, che ci hanno raccontato tanti episodi e hanno pregato per noi.
Perché questa fiction è da vedere?
È un messaggio che fa bene all’oggi ed è la storia di una donna che ha realizzato il suo sogno. Lo raccontiamo perché è un sogno pieno di valori, ancora non realizzato nella società attuale. È una donna che con determinazione ha cercato di imporre la sua visione del mondo e quindi è un esercizio di comprensione di come la forza, il desiderio, la visione, la determinazione possano portare a grandi risultati perché questa donna ha scritto un pezzo di storia e ha fatto tante cose. È un messaggio anche per il mondo femminile di grandissima importanza. Mi piacerebbe che questo messaggio arrivasse a prescindere del contenuto. Il mio rammarico più grande è che le persone intendano la sua storia come quella di una religiosa. Sì certo era una donna religiosa ed è meraviglioso il suo animo trasparente che aveva in relazione a Dio, a Gesù, però era soprattutto una donna che amava gli altri, una donna buona che ha fatto del bene e ha cercato di costruire un mondo migliore. Credo che una vita spesa in questa direzione sia una vita valida. Spero che donne e uomini vedano questa storia e la possano capire. Sono stata molto felice di aver interpretato questa storia.
N.B.
Da gennaio in libreria Chiara Lubich, l’amore vince tutto per i tipi di Città Nuova. Basandosi sulla sceneggiatura del film realizzato da Rai Fiction e Eliseo Multimedia S.p.A., Andrea Gagliarducci racconta i primi anni di questa nuova avventura “come un romanzo”.