Coronavirus, un’infermiera in prima linea

«La grande sfida del nostro mondo è la globalizzazione della solidarietà e della fraternità al posto della globalizzazione della discriminazione e dell’indifferenza». Così scrive papa Francesco nella Evangelii gaudium. Ai tempi del coronavirus molti gli episodi di una solidarietà concreta da mettere in luce. Accade a Padova.

Pochi mesi e sarebbe andata in pensione, ma l’infermiera B. F., che vuol restare anonima, sceglie, non sapendo quello che sarebbe accaduto, di lavorare in un ambulatorio di malattie infettive del Policlinico di Padova.

Un lunedì mattina quando si reca al nuovo posto di lavoro è grande la sorpresa. Giusto a fine carriera, da un frustrante, estenuante ambulatorio di retrovia, si trova in prima linea senza nemmeno essersene potuta accorgere prima. Le danno tuta, guanti, calzari, mascherina, occhiali e visiera trasparente e nel parcheggio dinanzi al reparto, sotto una tenda da campo inizia a fare prelievi, i famosi “tamponi” orofaringei: decine e decine, forse centinaia, uno dopo l’altro. Realizzerà d’aver lavorato, il primo giorno per l’intero turno di sette ore consecutive, senza prendere un caffè nè un sorso d’acqua.

Ma il clima è totalmente diverso da quello dell’ambiente stanco e demotivato lasciato tre giorni prima. Sembra di essere in un altro ospedale e in un’altra città e di essere tornati all’entusiamo dei primi anni di lavoro. Tale è l’impegno di tutti che sulle prime decide di fare tutto quello che sa già fare senza chiedere ai colleghi per non impegnarli nel darle istruzioni, per non distoglierli dal lavoro. L’ambiente è collaborativo, motivatissimo, efficiente; medici e paramedici anche giovani, pur compresi nel loro lavoro, sono sempre disponibili a darsi una mano un po’, come dire:«Tutti per uno, uno per tutti». Si è talmente coinvolti emotivamente, che ci si autosostiene reciprocamente, si chiacchiera, si discute, ci si trova paradossalmente sereni, solidali ed uniti dalla forte motivazione.

Nell’orizzonte di questa inedita emergenza, moltiplicate le cautele igieniche e la velocità del lavoro, il regime è diverso; alla nostra infermiera non sembra di riconoscere l’ospedale in cui pur lavora da più di quarant’anni. Il contatto con i pazienti è purtroppo fugace perché passano e vanno; vedi sguardi intimiditi, un po’ spauriti talvolta terrorizzati. Vorrebbero risposte che purtroppo nessuno può dar loro e questo è penoso. Si cerca di tranquillizzarli con un sorriso, anche se coperto dalla mascherina, si cerca di ascoltarli. Una dottoressa nota lo sforzo di farsi carico della loro angoscia e lo apprezza molto. Si prega di più in questi giorni e si scopre come questo sia molto naturale. Ciò che puoi fare è vivere il presente e viverlo bene anche in quel sorriso e nel tempo che dedichi all’ascolto dei pazienti. Tanto concreto appare quello che si è fatto che quando il turno finisce ci si rende conto che il lavoro ha riempito tutta la giornata. Si timbra il cartellino pensando alla famiglia che aspetta ed a tutte le cautele necessarie ed alla responsabilità di non portarsi a casa il virus. Ogni settimana s’attende con un po’ d’ansia l’esito del proprio settimanale tampone orofaringeo.

Accadono mille episodi semplici ma tutti hanno un carattere straordinario. Ogni tanto da qualche pizzeria arrivano enormi vassoi di pizza in tranci. Sono giganteschi e non si sa chi l’abbia inviati, forse il pizzaiolo stesso, forse qualcun’altro che sente di dover fare qualcosa per sostenere chi sta lavorando. Innanzi alla portineria arriva il furgone del pasticciere; qualcuno scende dal reparto e torna con vassoi di paste.

Il lavoro incalza, non si riuscirà forse a mangiare tutto quel che arriva, ma il valore di quei doni in cibo è altissimo: è il mondo intorno che sente di doversi far presente di dover dire la sua gratitudine.

Come altre città, da molti giorni Padova è ormai una città spettrale, viva ma deserta. È divisa in due: c’è chi è obbligato a stare barricato in casa e chi è obbligato a stare in prima linea…ma la città si fa sentire, unitissima, e sente di dover sostenere chi sta lavorando in prima linea.

 

 

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