Coronavirus e tablet per i malati
A molti di noi sarà capitato, in un momento di lontananza da familiari o amici, di apprezzare in maniera particolare il fatto di poter rimanere in contatto con loro grazie alle possibilità offerte dalla tecnologia: i sistemi per chiamare e videochiamare appoggiandosi a Internet sono ormai innumerevoli, e basta avere in mano un telefono o un tablet per poterlo fare in maniera pressoché immediata (connessione permettendo, ma questo è un altro capitolo).
Tanto più sarà capitato di sentirne l’importanza a chi si è trovato ricoverato in ospedale, impossibilitato a muoversi di lì, e magari anche a ricevere visite per ragioni mediche: ed è quello che stanno provando in particolare i pazienti affetti da Covid-19, per i quali l’isolamento è ovviamente strettissimo. Parliamo di quelli che sono in terapia intensiva, e che magari – come raccontato da alcuni medici lombardi in toccanti testimonianze – non ce l’hanno fatta e sono riusciti a dare un ultimo saluto a figli e nipotini tramite il cellulare sorretto per loro dai sanitari; ma anche di quelli che fortunatamente non sono altrettanto gravi, e per i quali l’attesa di rivedere di persona i propri cari è comunque lunga.
Per questo a Padova è sorta, su impulso di alcuni medici che hanno coinvolto l’Azione Cattolica per la gestione dell’iniziativa, la campagna “Lontani, ma connessi”. Identificata anche con l’hashtag #distantimavicini, si propone di raccogliere fondi per acquistare e donare dei tablet (dal valore indicativo di circa 200 euro ciascuno) che consentano ai malati di mettersi in contatto con le loro famiglie. Per iniziare ci si è posti l’obiettivo di 1000 euro, da raccogliere tramite la piattaforma GoFundme, bonifico, o altri canali: ma si è arrivati a dieci volte tanto, riuscendo ad acquistare tablet per pazienti ricoverati non solo in ospedale, ma anche in case di riposo o altre strutture assistenziali.
Personalmente mi capita in questi casi di ricordare ciò che mi disse una volta l’ormai ex primario di Oncoematologia pediatrica proprio di Padova. Parlando di bambini e ragazzi costretti a lungo in isolamento a causa della loro patologia, senza che nessuno si ingegnasse per trovare una soluzione che consentisse loro di mantenere i contatti con parenti e amici, affermò: «Non possiamo dimetterli da oncolematologia, per poi doverli ricoverare in psichiatria». E non credo proprio volesse fare dell’ironia.