Coronavirus, paura sì, fobia no
Vocaboli. Secondo i dizionari, la paura è una «emozione primaria di difesa, provocata da una situazione di pericolo che può essere reale, anticipata dalla previsione, evocata dal ricordo o prodotta dalla fantasia». Mentre gli stessi dizionari danno questa definizione di fobia: «Paura angosciosa per lo più immotivata e quindi a carattere patologico».
Media. Siamo onesti: leggendo i nostri giornali, ascoltando le nostre radio o seguendo i nostri telegiornali, ci troviamo di fronte a una legittima paura, parlando del Coronavirus di Wuhan, o piuttosto a una “illegittima” fobia? La risposta è semplice, spesso e volentieri la paura scivola verso la fobia. E ci sono media che senza alcuna responsabilità deontologica spargono le tossine della fobia cavalcando la tigre del Coronavirus per aumentare la loro audience e i loro introiti.
Numeri. Siamo assetati di numeri, quelli dei morti, dei contagiati, dei trend – ho sentito un passante spagnolo alla tv parlare di «spread incontrollabile del Coronavirus!» –, ma non sappiamo leggerli, perché nelle “epidemie” (non ancora nella “pandemia” come si sente già dire) un picco può voler dire la “maturazione” del contagio, e quindi un calo in prospettiva. Ieri è stata la volta del primo malato in Egitto, nel continente africano quindi, anche se non ci metterei la mano sul fuoco che il virus non sia già sbarcato senza essere individuato, i controlli non sono proprio rigorosi.
Turisti. Scena ormai consueta. Mi trovo all’aeroporto di Addis Abeba, diventato da qualche anno il più importante hub (cioè luogo di intersezione) dei trasporti aerei africani, superando la keniota Nairobi. Lo scalo è stato rinnovato di recente, la connessione internet gratuita funziona meglio che a Fiumicino, si può mangiare un pasto decente a prezzi più che decenti. C’è un mare di turisti europei, reduci da vacanze a Zanzibar, nel Tigrè, nei parchi naturali della Tanzania o della Namibia.
Lavoratori. C’è pure un fiume di cinesi, in massima parte lavoratori, che sciamano dagli aerei provenienti dall’intero continente nero dove la Cina sta investendo centinaia di miliardi in infrastrutture, in cambio di sfruttamento di risorse, seguendo la strategia win-win, cioè vinci tu che vinco anch’io. Va detto: i cinesi sono accettati in Africa perché fanno prestiti a tasso zero, ma non sono per niente amati. Sul pannello dei voli, ce ne sono addirittura due in provenienza da Wuhan, la combinazione di lettere più spaventosa che esista.
Controlli. I lavoratori dello scalo di Addis Abeba hanno tutti la mascherina, di un tipo assai robusto che pare quasi una maschera antigas, e indossano guanti di plastica bianchi. Svolgono il loro lavoro con solerzia e con attenzione, invitando i passeggeri in transito a sbrigarsi nelle formalità, nel togliersi le scarpe e a porle nelle vaschette dello scanner, nel presentare il boarding pass. Trattano tutti allo stesso modo, con gentilezza e fermezza.
Apartheid. Non accade lo stesso ai comuni viaggiatori di pelle bianca. Osservando la grande sala di aspetto dei voli internazionali, noto senza bisogno di fare rilevamenti statistici precisi, che i bianchi sono nettamente distinti dai cinesi. Non scorgo una sola fila di poltroncine in cui vi siano allineati bianchi, gialli e neri. Solo neri e gialli, o solo gialli, ma non c’è mai frammistione col pigmento di noi del Nord. Anche ai ristoranti mi accorgo che i bianchi disertano quelli dove c’è un qualsiasi concentrato di cinesi (o coreani, o giapponesi, o malesi, per noi è tutta la stessa razza, inconfessabilmente classificata una congrega di untori di manzoniana memoria).
Hostess. Le inservienti della Ethiopian Airlines hanno la mascherina ma non i guanti. Servono il buon pollo al curry con gentilezza, ma evitando accuratamente i contatti fisici. Quando raccolgono i vassoi ormai consumati del pasto, indossano i guanti bianchi. Debbono pure risolvere alcuni problemi di posti attribuiti a bianchi capitati accanto a qualche cinese. Anche se la compagnia ha già provveduto, con i suoi sistemi informatici, a concentrare i cinesi sulla coda dell’aereo.
Paura e fobia. La prima lotta al Coronavirus certamente parte dall’applicazione delle raccomandazioni dell’Oms e delle autorità sanitarie locali, sulle quali non si può assolutamente derogare. Cosa che viene fatta dalla massima parte di chi viaggia, sapendo che effettivamente gli aeroporti sono luoghi privilegiati per la diffusione dei virus e dei batteri. Non da ieri. Chi viaggia lo sa. Ma guai a cadere nella fobia. La fobia isola, erige muri, chiude ponti e tunnel, isola, crea steccati e controlli e fa immaginare scenari apocalittici inesistenti. Avere paura sì, trincerarsi nella fobia, no please.
Esprit de mort. Anche perché la fobia impedisce di capire che in Africa il rischio maggiore non è il Coronavirus, ma piuttosto la mai sconfitta ebola, la malaria endemica e la febbre gialla sempre presente. E si dimentica che si muore molto di più sui furgoncini di trasporto pubblico di Kinshasa (veri carri funebri, se è vero che li chiamano “esprit de mort”, spirito di morte) che per un virus d’origine cinese. E, ancora, che passa al Creatore molta più gente per mancanza di soldi per l’acquisto di semplicissimi medicinali salvavita che per un contagio improbabile.
Cervello. Tutto è relativo. Usiamo l’intelligenza della prudenza, e la prudenza dell’intelligenza.