Confindustria, Cgil, Cisl e le bombe prodotte in Sardegna

Con un comunicato congiunto, i rappresentanti locali delle parti sociali si dichiarano contrari alla riconversione industriale della Rwm. Eppure una politica industriale diversa è possibile ed è una questione nazionale. Domande aperte
EPA/YAHYA ARHAB

La lunga estate del 2017 si è aperta il 19 luglio  con la scelta unanime del consiglio comunale di Iglesias di dichiararsi città di pace. La presa di posizione non è affatto generica, ma è arrivata davanti alla richiesta della Rwm Italia di espandere la sua attività nel territorio della città sarda. Parliamo della fabbrica, di proprietà tedesca,  che produce anche  le bombe inviate in Arabia Saudita, capofila di una coalizione impegnata nel disastro umanitario in corso che è la guerra nello Yemen.

Da parte della società civile è arrivata una forte richiesta di intervento per una riconversione integrale dell’economia del territorio, non solo quindi della fabbrica interessata, per sottrarsi ad un ricatto inaccettabile.

Con un comunicato congiunto, però, le organizzazioni datoriali e quelle sindacali locali hanno smorzato ogni attesa, ribadendo la necessità di mantenere in vita la produzione della Rwm, una delle poche aziende che danno lavoro in un’area depressa. La questione è troppo importante e non merita perciò di essere abbandonata, tanto più che a Cagliari si svolgerà, a fine ottobre, la Settimana sociale dei cattolici italiani che pone a tema “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo, solidale”.

Dopo l’appello di alcune associazioni rivolto ai parlamentari lo scorso 21 giugno, la Camera dei deputati dovrà votare a settembre la mozione trasversale che chiede lo stop all’invio di bombe verso l’Arabia Saudita.

Cosa hanno davvero da dire nel merito le parti sociali?

Confindustria, cioè l’associazione degli industriali italiani, come la direzione nazionale di Cgil e Cisl, che raccolgono il maggior numero di iscritti al sindacato tra i lavoratori dipendenti, non possono credere di risolvere la questione della produzione di bombe in Sardegna, destinate alla guerra in Yemen, con la dichiarazione dei loro rappresentanti a livello regionale.

Questi ultimi hanno ribadito l’impossibilità della riconversione industriale della produzione assicurata, nel territorio del Sulcis Iglesiente, dalla società tedesca Rheinhmetall Defence  che controlla la Rwm.

Oggi in Italia manca il lavoro e quello che esiste è sotto attacco sotto il profilo dei diritti e della stabilità. Per un dipendente, poi, la parola riconversione produttiva ha un suono inquietante perché quel termine si associa a processi di ristrutturazione che finiscono per ledere diritti e conoscenze acquisite. Esiste una signoria incontestata della “proprietà” che decide cosa, come e per chi produrre secondo strategie competitive e di redditività che sono sottratte ad ogni discussione.

Il ruolo del pubblico si limita, in questo schema intoccabile, ad attrarre e facilitare i capitali disposti ad investire sul territorio, senza poter impedire future chiusure o delocalizzazioni maturate in sedi decisionali che operano a livello planetario.

In Sardegna, ad esempio, la statunitense Alcoa, come è noto, ha rilevato nel 1996 dalle partecipazioni statali dell’Efim la produzione di allumimio ricevendo significativi incentivi pubblici, salvo poi trasferire l’attività in una sede che la multinazionale di Pittsburgh ha avuto tutto il tempo di costruire in Arabia Saudita, chiudendo nel 2014 l’attività in Sardegna.

Da tempo i sindacati sono chiamati a “ridurre il danno” e a gestire una situazione esplosiva, con i lavoratori sardi che protestano  disperatamente sotto le sedi dei ministeri romani, spesso impotenti.

Ricatto e riscatto

La tragica mancanza di alternative apre, così, a dilemmi estremi assunti con assoluta consapevolezza: se questa è la realtà delle cose, meglio la produzione di bombe! Lo dice il sindaco di Domunovas, i passanti intervistati fugacemente da un servizio de La 7, i datori di lavoro e i loro dipendenti.

Il lavoro da strumento di riscatto sociale, diventa, così, preda di un ricatto. Per non cadere in questa trappola, dove tutte le vittime finiscono per beccarsi tra di loro, è necessario evitare ogni facile moralismo e mettere in evidenza le reali responsabilità.

Come si è reso evidente nell’assemblea 2017 degli azionisti con le domande poste da Banca etica, la proprietà della Rheinmetall preferisce riservare la fase di assemblaggio e invio di bombe dall’Italia sul presupposto di una legittimità confermata dal governo italiano. La questione è dubbia. Sulla vicenda pende, infatti, un esposto alla magistratura per violazione penale della legge 185/90 oltre che dei trattati internazionali sulle armi.

Un diverso atteggiamento dei governanti italiani avrebbe potuto indurre l’azienda tedesca a valorizzare le competenze delle maestranze in altro modo. La specializzazione individuata espone al rischio che, per motivi estranei ad ogni valutazione etica, come possono essere quelli logistici o di convenienza politica, la proprietà possa facilmente delocalizzare l’attività vicino al luogo del pronto utilizzo.

Ad esempio, Eleonora Ardemagni sul sito dell’Istituto  Affari internazionali , ha messo in evidenza che l’Arabia Saudita ha «l’obiettivo di “localizzare nel regno, entro il 2030, il 50% delle spese militari totali”, come ha dichiarato Mohammed bin Salman, ministro della Difesa e neo principe ereditario, annunciando la creazione della Saudi Arabia Military Industries (Sami), la compagnia pubblica che gestirà il rilancio dell’industria militare nazionale».

Non si tratta solo di prospettive di coproduzione tra esportatore e importatore. L’Arabia Saudita vuole seguire l’esempio degli Emirati Arabi uniti capaci di fornire, già, «il modello di blindato Nimr (co-prodotto in Algeria) impiegato nel conflitto in Yemen, così come le corvette Baynunah». La crescita di un’industria nazionale della Difesa permette di assestare, inoltre, il potere dei vertici militari.

Una politica diversa esiste già

Anche solo per attirare e far crescere investimenti esteri, occorre, quindi, una prospettiva proficua e di lunga durata. La Sardegna offre, in tal senso, dei casi emblematici. Nel paese di Furtei, sempre provincia del Sud Sardegna, abbiamo il disastro ecologico provocato dalla Sardinia Gold Mining S.p.a., controllata della multinazionale canadese Buffalo Gold ltd, fallita nel 2008 dopo aver promesso ricadute di ricchezza dall’estrazione dell’oro che resta invece all’interno di una miniera da bonificare, con i soldi pubblici che mancano, dalla presenza di cianuro e mercurio.

Esiste tuttavia a Cagliari anche l’esperienza del Centro di Ricerca, Sviluppo (CRS4), fondato dal Premio Nobel Carlo Rubbia nel 1990. Attività di eccellenza che ha convito la cinese Huawei a siglare un accordo con la Regione Sardegna per sviluppare progetti di ricerca sulle Smart Cities (risparmio energetico e città intelligenti) investendo decine milioni di euro.

Bisogna allora chiedersi, ad esempio, quali risorse pubbliche si vogliono convogliare sul piano Sulcis già varato a livello regionale. In che modo poter usare la leva finanziaria della Cassa depositi e prestiti per strategie di medio e lungo periodo su ricerca e innovazione con la valorizzazione di   partner interessati al mutuo vantaggio e non a logiche predatorie?

La zona grigia

Partiti, confindustria e sindacati hanno un compito propositivo. Se lo rifiutano, affermano di fatto che non esistono alternative possibili al dilemma tra lavoro e bombe.

Il motto thatcheriano (“there is no alternative”) diventa il paradigma di un agglomerato umano che non è più una società, ma un insieme di individui costretti dall’istinto di sopravvivenza, in quella “zona grigia” dove le vittime sono anch’esse colpevoli, secondo la penetrante descrizione che Primo Levi fa del Lager.

Non è un caso quindi che il Comitato sorto per chiedere la riconversione della Rwm abbia preso come esempio da non imitare, coloro che pur sapendo dei forni crematori dei campi di concentramento hanno preferito tacere. Oggi nel 2017 partono bombe destinate a creare stragi di innocenti.

L’insorgenza di una coscienza che non pretende di salvarsi da sola, con la purezza di una condanna teorica, ma chiede di uscire assieme dal non senso con un lavoro degno, capace di portare vita e libertà, esprime l’istanza di una società capace di rigenerarsi dalle fondamenta. Non con le prediche, ma con scelte concrete e intelligenti.

Chi rappresenta gli interessi del lavoro autentico, libero e degno, non può restare indifferente.

 

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