I bambini del ponte sul Roya

Come un piccola processione di topolini, o di pulcini, uno dopo l’altro da alcune cavità dei pilastri sono sbucati 6 bimbi, da 1 a 5 anni di età

Le ruspe erano già arrivate per pulire il greto del Roya. Dopo lo sgombero degli occupanti del campo non autorizzato, era arrivata l’ora dei lavori, quando improvvisamente dalle piccole cavità rotonde collocate all’interno del ponte ferroviario, tra un arco e l’altro, sono sbucati sei bimbi di pochi anni di età, da 1 a 5 per l’esattezza. Vivevano in quei cunicoli nascosti in attesa che i loro genitori trovassero il momento giusto per sconfinare. Visetti sorridenti, sorpresi dall’attenzione a loro dedicata.

Loro non sanno d’essere clandestini. No, non lo sanno. E vivono in quei cunicoli, piccoli loculi, riparati dalle intemperie. Non sanno e non riescono a immaginare di essere classificati come “avanzi urbani” per questa civiltà, che di civile pare abbia perso tutto. Ma questi sei bimbi sono una minima parte, altri vivono nel campo della Croce Rossa, altri – chissà quanti sono e sono tanti – a Ventimiglia.

Quasi un esercito di piccole creature. Sabato mattina, come spesso succede, i fedeli della parrocchia di S. Antonio alle Gianchette con il loro parroco don Rito, dopo la messa attraversano la strada e vanno al campo sotto il cavalcavia del fiume Roya. Portano termos col caffè, il thè e i biscotti. Facciamo colazione con i nostri fratelli che sono accampati qui sotto le tende improvvisate. E nella desolazione e tristezza più evidente, inizia la giornata, fatta di buongiorno, di come stai. Sorrisi impoveriti al massimo ma proprio per questo sinceri fino al midollo. Veri.

E da sotto le tende, come un piccola processione di topolini, o di pulcini, uno dopo l’altro sbucano altri bimbi. I loro visetti sono ancora stropicciati dalle coperte, e ancora sono assonnati. Mettevano fuori la testa per capire cosa stava succedendo attorno e poi a quattro mani uno dopo l’altro si dirigevano verso i loro genitori a bere un po’ di bevande calde e rosicchiare i biscotti.

Sono i bimbi di Ventimiglia. Ma sperano di non essere il futuro di questa città, che con i suoi abitanti è stanca, sfiduciata con le istituzioni. Con il sistema che non gira, per l’afflusso continuo e scostante di uomini e donne che la “invadono” benevolmente e temporaneamente, soltanto col desiderio di passare quel benedetto confine per raggiungere l’Europa centrale.

Ma la Francia respinge ogni tentativo di accesso ai suoi confini. I respingimenti sono giornalieri e di massa. Ma loro non demordono, sperano di poter eludere la gendarmeria, la polizia di frontiera, quella ferroviaria e realizzare un sogno. Nel frattempo stanno sulla linea di confine. Identificati e non, con le loro impronte fissate su documenti e visti. O come sans papier nascosti nel greto del Roya. Quanti? Chissà, possono essere cento, duecento un giorno, cinquanta un altro.

Il numero sale e scende, varia come le nuvole che oggi coprono le cime innevate delle Alpi Marittime, mentre ieri splendevano sotto un cielo terso da estate inoltrata. Gli abitanti di Ventimiglia sono stanchi di vedere una situazione che non si risolve. E ci sono quelli che gridano basta, che non ne possono più, che si voltano dall’altra parte.

Ma ci sono altri, i più, che s’inventano mille cose per raccogliere provvidenza e aiutare questi sfortunati a sopravvivere. Penso a don Rito che ne ha ospitati e rifocillati, un infinità nei locali della sua parrocchia alle Gianchette, Penso a Delia che accoglie tutti e ristora tutti nel suo bar, ai volontari della Caritas, delle associazioni e movimenti.

Penso agli amici francesi che la sera da oltre confine arrivano con i pentoloni e distribuiscono mestoli di minestra, thè bollente pane e formaggi a chi ha fame. In questa città, ultima o prima dell’Italia dipende da dove si guarda, «ci sono cittadini che ottengono i mezzi adeguati per lo sviluppo della vita personale e familiare, però sono moltissimi i “non cittadini”, i “cittadini a metà” o gli “avanzi urbani” che stanno ai bordi delle nostre strade, che vanno a vivere ai margini delle nostre città senza le condizioni necessarie per condurre una vita dignitosa, e fa male constatare che molte volte tra questi “avanzi umani” si trovano i volti di tanti bambini e adolescenti», disse a Lima, nella sua visita pastorale pochi giorni fa papa Francesco nell’omelia della Messa alla base aerea di La Palmas.

Poi ci sono «le famiglie e soprattutto le donne sole con i bimbi che al Parco Roya non vogliono andare. Hanno paura – ha spiegato Daniela Zitarosa, dell’associazione Intersos –. Che fare? Aprire le frontiere, battersi affinché vi siano canali legali di transito. O, perlomeno, aprire un centro più vicino alla città che possa essere un punto di riferimento». I migranti al centro ufficiale gestito dalla Croce Rossa per conto della Prefettura attualmente sono 300, ma almeno 150 restano accampati sul fiume: temono l’identificazione. E forse un luogo che, almeno nel loro immaginario, assomiglia troppo ai centri libici, dove hanno vissuto l’orrore. Le prospettive per il futuro non sono buone: «Diminuiscono gli arrivi e gli sbarchi, ma aumentano i respingimenti dalla Francia», sintetizzano Musa Sedo, mediatore del Sudan e Sara Zuffardi dell’associazione Al Haraz, che all’accampamento sono di casa. Varcare il confine è sempre più difficile».

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