Il caso serio delle bombe italiane
Siamo nel 1992 quando Norberto Bobbio, filosofo e giurista, scriveva in un “messaggio” per lungo tempo inedito: «In tutti questi anni si sono succedute sempre nuove Carte dei diritti, ma la maggior parte di questi diritti sono rimasti, letteralmente, sulla carta. A cominciare dal diritto alla pace che è strettamente legato ai due diritti fondamentali dell’uomo, il diritto alla vita e il diritto alla libertà». Così, a distanza di anni, sembra riecheggiare allora come oggi, nella sua perenne attualità, quanto scritto dai Padri costituenti nella nostra Carta costituzionale all’art. 11: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
È la ferma volontà di esprimere, anche nei confronti del mondo internazionale, la condanna e la rinuncia alla guerra, in forza di quella dichiarazione contenuta tra i Principi fondamentali della nostra Costituzione.
Guardando già allora a un futuro d’unità fra le Nazioni, anche oltre i confini dell’Europa, non si taceva dai Padri costituenti l’obiettivo di «aprire tutte le vie ad organizzare la pace e la giustizia fra tutti i popoli».
Eppure, eccoci ancora oggi, in una terra antica come la Sardegna e forte come la sua gente, a parlare di bombe prodotte dalla RWM Italia Spa in una fabbrica collocata nel Sulcis Iglesiente, un tempo terra di minatori. Sono le stesse bombe che, come ormai noto e confermato da fonti ONU, il nostro Paese vende all’Arabia Saudita, e quest’ultima utilizza anche contro la popolazione civile dello Yemen, dove è in atto la più grave emergenza umanitaria del secondo dopoguerra.
Le leggi non mancano
Sono le tante vittime di guerre taciute o dimenticate, ma alle quali il Comitato Riconversione RWM ha inteso dar voce in nome della pace e dell’umana dignità, nonostante il parere contrario di Confindustria e delle principali sigle sindacali a difesa e sostegno della piena legittimità e del diritto all’attività produttiva della fabbrica di armi in attesa di ulteriore espansione.
Eppure le leggi non mancano perché sia la forza del diritto a prevalere e non il diritto del più forte. Il controllo su esportazioni e trasferimento dei materiali d’armamento è affidato dalla legge 185 del 1990 allo Stato, e la stessa legge ne prevede i divieti: in particolare, «verso i Paesi in stato di conflitto armato, Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione, o ancora verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa».
A livello internazionale l’Italia, fra l’altro, ha ratificato il Trattato sul commercio internazionale di armi convenzionali (Arms Trade Treaty – ATT), adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, New York, 2 aprile 2013 ed entrato in vigore il 24.12.2014. Ricordiamo che, in particolare l’art. 7, comma 7 prevede che lo Stato Parte esportatore, anche dopo la concessione dell’autorizzazione, possa venire a conoscenza di nuove informazioni rilevanti; in tal caso, lo stesso Stato sarà «incoraggiato a riesaminare» l’autorizzazione accordata.
Basta, dunque, per legittimare il commercio e l’esportazione di armamenti dall’Italia l’iniziale autorizzazione, pur prevista dalla legge 185 del ’90, se è vero che il nostro ordinamento affida proprio alle istituzioni la verifica circa il permanere delle condizioni iniziali?
Quell’autorizzazione non costituisce evidentemente un mero atto formale, ma chiede una verifica sostanziale, affinché l’attività prima consentita non incorra successivamente nei divieti espressamente previsti, che attendono il rispetto da parte di tutti, istituzioni comprese.
Le Risoluzioni europee
Non manca neanche la voce della stessa Unione Europea. Con la Risoluzione del 25 febbraio 2016 sulla situazione umanitaria nello Yemen (2016/2515(RSP)) il Parlamento europeo ha chiesto espressamente «l’embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita», sia per le gravi segnalazioni di violazione del diritto umanitario, sia per la conseguente considerazione «del fatto che il continuo rilascio di licenze di vendita di armi all’Arabia Saudita violerebbe […] la posizione comune 2008/944/PESC del Consiglio dell’8 dicembre 2008». Analogamente, la successiva Risoluzione del Parlamento europeo del 15 giugno 2017 (2017/2727(RSP)).
Ma ha a che fare tutto ciò con il lavoro, diritto/dovere previsto dalla Costituzione tra i principi fondamentali? Lo è anche quel lavoro produttivo di armi, oggi rivendicato e difeso a favore di una terra certo povera, ma non di bellezze naturali, come l’Iglesiente?
Non va dimenticato che l’art. 41 della Costituzione, nel garantire la libertà di iniziativa economica, ne dispone anche i limiti: «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». E ancor prima l’art. 2 della Costituzione richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, così che persona e mercato si ricongiungono in una visione unitaria.
Eppure oggi sempre più spesso accade di sperimentare una drammatica alternativa: tra lavoro e salute (v. caso Ilva di Taranto), o lavoro e rispetto di principi/diritti altrettanto fondanti della convivenza, quali quelli enunciati nell’art. 11 Costituzione.
Gli illegalismi legali e le radici del diritto
Dobbiamo allora essere consapevoli che per operare la riconversione di una attività produttiva occorre ancor prima togliere terreno alle armi, posto che la prima cornice di ogni attività lavorativa è la garanzia di legalità. Quest’ultima deve farsi sostanziale fino ad affermarsi come cultura della legalità per cittadini e istituzioni, e superare il rischio di ricadere in quelli che sono stati definiti “illegalismi legali”.
Ancor meno il lavoro può essere a prezzo di vite umane. Anche la Corte costituzionale italiana, dinanzi alla specificità della “vocazione sociale dell’uomo”, ha voluto con essa sottolineare il “vincolo di appartenenza attiva che lega l’individuo alla comunità degli uomini”. E altre voci si levano a ricordare che gli interessi degli ultimi non possono essere trascurati dal diritto, un diritto capace di “coniugare solidarietà e giustizia” fino a “garantire una ‘solidarietà tra estranei’” per citare la lezione di Jürgen Habermas . È la stessa invocata dal “Comitato Riconversione RWM” nei confronti della popolazione dello Yemen e a sostegno della riconversione della fabbrica di bombe.
Ma anche la legalità, nell’ effetto ultimo di ordinare le relazioni sociali, comporta che il suo contenuto non si limiti al “non nuocere”, “non offendere”, “rispettare le norme”, ma arrivi a “guardare al bene dell’altro come al proprio”.
Se i profitti si possono sommare perché non hanno volto e non esprimono identità né storia, nell’obiettivo del bene comune non si può sacrificare il bene di qualcuno, magari distante e sconosciuto, per migliorare quello di qualcun altro, perché quel qualcuno è pur sempre una persona umana.
Una scelta che chiede il coraggio di fermarsi, perché, è il messaggio di Norberto Bobbio, «dobbiamo essere sempre più convinti che il rispetto dei diritti dell’uomo e la conservazione della pace cominciano da ciascuno di noi, singoli uomini e singole donne inermi di tutto il mondo, all’interno di ciascuno di noi, dei nostri pensieri, e delle azioni, anche se piccole, che riusciamo a far seguire con coerenza ai nostri pensieri».
È questo forse il coraggio degli ultimi e il richiamo ai potenti.