Armi all’Egitto, un caso serio per la politica italiana
L’Italia venderà due navi da guerra all’Egitto per un valore stimato di 1,2 miliardi di euro. Si tratta di due Fregate Europee Multi Missione destinate originariamente alla Marina militare italiana.
Da quanto rivela l’Ansa, la trattativa ha avuto il via libera con una telefonata diretta tra il premier Giuseppe Conte e il generale egiziano al Sisi, ma la vicenda era nota da tempo come premessa alla concreta possibilità di concludere un accordo complessivo di forniture militari, caccia bombardieri inclusi, che oscilla tra i 10 e 16 miliardi di dollari.
Per avere un’idea, nel 2019 l’export di armamenti autorizzato, secondo la relazione inviata in Parlamento in base alla legge 185/90, è stato pari complessivamente a 5,17 miliardi di euro, con l’Egitto già in prima posizione come acquirente per 872 milioni di euro.
La notizia sta ricevendo spazio sui media per l’indignazione della famiglia di Giulio Regeni, il ricercatore italiano torturato e ucciso a Il Cairo in circostanze che le autorità egiziane non hanno contribuito finora a chiarire.
Le associazioni riunite nella Rete disarmo e nella Rete pace hanno lanciato una campagna di pressione pubblica, assieme ad Amnesty international, perché l’intera vicenda sia portata all’esame del dibattito parlamentare ricevendo un qualche riscontro all’interno dei partiti della maggioranza governativa. Il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Regeni, Erasmo Palazzotto, ha convocato Conte per un’audizione urgente.
Secondo Gianadrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa e consigliere del ministro Matteo Salvini nel Conte 1, queste reazioni sono la dimostrazione di un ennesimo atto di puro autolesionismo per il nostro Paese che può, invece, esercitare un ruolo strategico importante in Medio Oriente, battendo la concorrenza dei francesi che trarrebbero un vantaggio competitivo dai nostri scrupoli morali.
Gaiani fa notare che l’Egitto rappresenta la più imponente forza militare dell’area grazie ad investimenti miliardari in sistemi d’arma acquistati, negli ultimi anni, da Russia, Usa, Francia, Cina e Bielorussia grazie al finanziamento concesso da Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Gli Usa finanziano, invece, solo quello che serve per acquistare armi statunitensi.
Altre risorse arrivano dalle rendite dell’export di gas assicurate dagli enormi giacimenti rilevati dall’italiana Eni in quel Paese.
«Il Cairo è ormai un interlocutore fondamentale», ripete il generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa, al sito Formiche.net e pertanto, «con tutto il rispetto» per la vicenda Regeni, «non può essere il caso di una persona a dettare tempi e modi della politica estera italiana».
Eppure la contraddizione della linea adottata dal governo italiano, secondo Rete pace e Rete disarmo, si pone proprio sul fatto che «l’Egitto è il principale sostenitore del generale Haftar, che guida l’autoproclamato “Consiglio nazionale di transizione libico” che da anni è in conflitto col governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli, che l’Italia sostiene».
Le reti associative fanno inoltre notare che le autorità egiziane hanno fatto ricorso a misure repressive contrarie ai diritti umani, come nel caso della detenzione di Patrick Zaki, studente egiziano dell’università di Bologna. Condizioni che costituiscono un ostacolo all’autorizzazione all’export di armi all’estero secondo la legge 185 del 90.
Ma è proprio questa norma che deve cambiare, secondo Tricarico, perché «se si dovesse valutare ogni possibilità di esportazione sulla base del tasso di democrazia dei Paesi destinatari, non si esporterebbe più nemmeno uno spillo».
La legge 185 andrebbe, secondo il presidente della Fondazione Icsa, fondata assieme all’ex ministro degli Interni Marco Minniti, «ripensata e riscritta, senza dimenticarne i valori di riferimento, ma tenendo conto del contesto geopolitico e dei rapporti internazionali, non più ingessati e catalogabili come un tempo».
Anche per Gaiani il fatto che l’Italia abbia già concluso altre importanti commesse militari con il Qatar, Paese rivale dell’Egitto, dimostra il fatto che Roma, grazie alle sue aziende strategiche, riveste «un ruolo di grande rilievo nel mondo arabo che offre opportunità politiche e diplomatiche in termini di influenza e prestigio che è necessario cogliere».
La commessa delle Fremm appartiene infatti a Fincantieri, controllata dal capitale pubblico, che ha di recente vinto un’altra grande commessa della Marina militare Usa tramite una società statunitense del gruppo industriale italiano (la Marinette Marine Corporation).
Come informa l’agenzia Ansa, anche questa partita si preannuncia foriera di altre commesse per i cantieri statunitensi della Fincantieri: «almeno altre 4 unità (di fregate lanciamissili) saranno infatti consegnate all’Arabia Saudita».
«Fincantieri è garanzia di un “made in Italy” che porta nei mari del mondo le eccellenze italiane», ha detto il ministro della Difesa italiano Guerini varando, a gennaio 2020, la fregata multiruolo intitolata ad Emilio Bianchi «che partecipò all’affondamento nel porto di Alessandria d’Egitto di due corazzate britanniche, nel 1941, cavalcando i cosiddetti siluri-maiale». Ora questa nave da guerra, destinata originariamente all’Italia, arriverà, quanto prima, proprio in Egitto.
Ovviamente se il Parlamento, la politica e la società italiana non pretenderanno di ridiscutere seriamente i fondamenti della politica estera, economica e industriale del nostro Paese.
L’Italia ha aderito prontamente all’invito del segretario dell’Onu Antonio Guterres sul “cessate il fuoco” a livello mondiale per dedicare ogni risorsa alla cura della pandemia. Secondo certi analisti, invece, proprio le grandi commesse delle armi sarebbero l’unico modo per l’Italia di risollevarsi dalla crisi del Covid 19.
Questione che andrebbe posta o sollevata da qualche esperto o “mente illuminata” negli Stati generali dell’economia che inizieranno venerdì 12 maggio a villa Pamphili.