Addio a Paolo Rossi, eroe del Mundial di Spagna ‘82
Fisico gracile, gambe secche e chiare, carattere mansueto, occhi dolci… non sembrava certo essere destinato a entrare nella storia del calcio, Paolo Rossi, invece lo fece con un carico di significative reti che lo avrebbero reso uno dei nomi e dei volti più celebrati dell’Italia dello sport. Un male incurabile se lo porta via 64 anni, 37 anni e mezzo dopo essere riuscito nella clamorosa impresa, a tratti più sociologica che sportiva, di ricongiungere il popolo italiano all’amore per il calcio e per la Nazionale.
Icona e cannoniere principe, con sei reti, di una meravigliosa nazionale, tutta cuore e talento che, nonostante poco fisico e ancora meno aspettative, nel 1982 riconquistò la vetta del Mondo dopo diversi decenni. In maniera tanto insperata quanto meritata, vedendo il Presidente della Repubblica, Pertini, alzarsi in tribuna pugni al cielo per gridare al mondo “campioni del mondo”, simbolo di un Belpaese dilaniato per anni, a quel tempo, dal sangue versato per opera di criminali più o meno deviati o ideologizzati, da logge più o meno note, da mandanti ancora meno chiari.
“Pablito” destò in quel momento non solo l’Italia del pallone ma, forse, quella quasi intimorita dalla scoperta di possibili gravi svalutazioni della Liretta e gravi ombre che la Mafia tricolore cominciava a estendere dalle periferie del sud al Parlamento, gettando ponti affaristici transoceanici. È a questa cornice storica, che bisogna far riferimento per capire cosa ruotasse attorno quel benedetto pallone che Rossi spinse alle spalle dei portieri del grande Brasile dei giocolieri, o della grande Germania dei granatieri dominanti atleticamente. C’era il genio inaspettato italiano, la sua intelligenza, la sua capacità di sperare contro ogni speranza, in quel rettangolo verde che per una volta riunì le tante italie dei “terroni” e dei “polentoni”, dei nostalgici di ventenni oscuri come degli iper-progressisti pronti a tutto.
E per un bel po’, “mafia”, “spaghetti” e “pizza” lasciarono a “Paolo Rossi” il campo dell’associazione mentale riservata agli italiani nel mondo: il bimbo nella favela di Rio de Janeiro a piedi scalzi che giocava con una palla di stracci con addosso la maglia strappata azzurra con il nome di Rossi sulla schiena, come il carpentiere in Australia o il pizzaiolo in Germania con quel volto stampato in camera. Senza quel trionfo al Mundial dell’82, forse l’Italia sarebbe stata diversa agli occhi del mondo ancora per un bel po’… come la vita stessa di quel giocatore atipico, delicato, quasi felpato, che segnava di testa senza averne apparentemente l’altezza e riempiva le reti senza averne apparentemente i muscoli.
Era l’Italia che due anni prima del mitico Mundial, nel marzo del 1980, vide le camionette dei Carabineri entrare in campo portandosi via giocatori e dirigenti, svelando la truffa del Totonero, 25 anni prima di Calciopoli: un giro di scommesse che coinvolse anche Rossi, procurandogli due anni di squalifica per il pareggio concordato in un Avellino-Perugia, dove lui comunque segnò due reti. Pochi anni dopo fu completamente scagionato dai due principali testimoni d’accusa, Trinca e Cruciani, che ammisero di averlo tirato in ballo perché simbolo del calcio italiano.
Dalle stalle alle stelle, per caso o per scelta, per un ragazzo che aveva cominciato a giocare a calcio nel Santa Lucia, squadra della frazione di Prato in cui nacque, prima di finire già a 16 anni nell’orbita della Juventus, che di fatto si divise le sue prestazioni con il Lanerossi Vicenza, che il giovane Paolo trascinò a vincere la serie B da cannoniere con 21 reti. Una carriera promettente, passata anche per Perugia e “follie” finanziarie dei presidenti che ne cercarono le prestazioni, fino a quando alla Juventus lo acquistarono di nuovo nell’’81 dietro la promessa di vederlo “coi capelli tagliati e sposato” (come Rossi fece). Poi il mitico ritorno in nazionale, dentro una maglia più grande di lui: tre gol al Brasile, due alla Polonia, uno in finale alla Germania.
Un campione normale, “antieroe” rispetto ad esempio al da poco compianto Diego Armando Maradona. «Guardavo la folla, i compagni, le bandiere dell’Italia sventolare ovunque, e dentro sentivo un fondo di amarezza. Adesso dovete fermare il tempo, mi dicevo. Non avrei più vissuto un momento del genere. E me lo sentivo scivolare via. Ecco: era già finito. Capii che la gioia, quella vera, dura un attimo…» – confessò, cosciente anche di una fragilità fisiologica che le sue ginocchia testimoniarono facendolo finire tre volte sotto i ferri in tre anni e costringendolo a chiudere la carriera a 31 anni. Transitato in televisione da commentatore distinto e poco invadente, se n’è andato allo stesso modo: senza disturbare, senza troppi riflettori. Ma da campione dei campioni del mondo, indimenticabile simbolo di un’epoca che segnò l’Italia.