Referendum, la ragionevolezza del No
Il 20 settembre si terrà il referendum sulla modifica costituzionale che riduce il numero dei parlamentari. Per contribuire ad una scelta collettiva più consapevole, senza posizioni precostituite, è opportuno vagliare alcuni argomenti, a favore e contro, questa riduzione.
Comincerei con un argomento di ordine generale, che milita a favore del No nel referendum. La costituzione italiana è un organismo complesso. Si fonda su un accorto bilanciamento. Incidere su questo corpo, senza un disegno globale, è sempre un errore. In particolare quando questo avviene sulla base di pulsioni viscerali.
Nel caso di specie è evidente che, dietro al taglio, non vi è alcun ragionamento di ordine costituzionale. L’unica ragione dichiarata è il risparmio dei costi. Quindi si tagliano i parlamentari, così come si taglierebbero le posate d’argento o le auto blu.
Il movente dichiarato del taglio è molto rilevante. È certamente vero che la classe politica, oggi, è avvertita come una categoria a sé stante, separata dai cittadini, e garantita da privilegi. Ed è altrettanto vero che questa stessa classe politica deve mostrare in prima persona di essere in sintonia con l’elettorato, anche nella consapevolezza della difficoltà del vivere quotidiano di milioni di persone. Tuttavia è preoccupante che il rapporto sia inteso solo come rapporto di tipo economico, e che il deputato sia inteso solo come uno stipendiato, e non come il proprio massimo rappresentante nelle istituzioni. Il cittadino dovrebbe essere ben consapevole che il suo interesse è quello di avere la massima presenza, la massima rappresentanza nelle istituzioni. Ci sono ben altri costi da tagliare, e potranno essere tagliati solo se l’elettore sarà rappresentato. Metaforicamente: l’ultima parte della vettura, cui il conducente deve rinunciare, è il volante.
Sarebbe quindi un grande segnale se i cittadini elettori, votando No nel referendum, mandassero un messaggio chiaro di appartenenza. Il parlamento è mio, ed è il luogo dove parlano i miei rappresentanti, non accetto che venga toccato per risparmiare qualche soldo. Sarebbe un segnale di volontà, che non potrebbe essere ignorato, di riappropriazione delle istituzioni.
Occorre, però, nel contempo, sfatare anche qualche argomento della campagna per il No. Si dice che sarebbe il Parlamento nel suo insieme ad essere indebolito. Tesi che può essere accettata solo nella misura di cui si è detto sopra, vale a dire un indebolimento morale. Restando nella metafora: è chiaro che i primi libri che vendiamo, quando abbiamo bisogno di soldi, sono quelli che ci piacciono meno. Tuttavia, a parte questo segnale, davvero triste, per il resto l’organo non sarebbe affatto leso. Con 630 o con 400 membri, la Camera lavorerebbe allo stesso modo. Non avrebbe una diminuzione delle proprie competenze e funzioni. E lo stesso dicasi per il Senato con 200 senatori al posto di 315.
Questo però non significa che non vi sarebbero effetti, anche importanti. Prima di tutto è evidente l’effetto sulle forze politiche minori, che rischierebbero di sparire. Occorre ricordare che si vota per collegio, e che i partiti minori hanno bisogno che un collegio assegni moltissimi seggi per sperare di prenderne uno. Per maggiore chiarezza: se un collegio regionale assegna tre seggi (anziché i vecchi 5), occorrerà avere il 25% per prendere un seggio. Quindi, quando si parla di crisi delle forze minori, non ci si riferisce ai partiti sotto l’1%, già da tempo espulsi, ma a quelli con il 5 o 6% che saranno eliminati.
A corollario, vi è un effetto meno intuitivo. Il voto italiano è polarizzato regionalmente. Dunque ci sono partiti che hanno un forte radicamento territoriale. Ma le regioni monocolore, finora, comunque mandavano almeno qualche deputato ‘diverso’. E quindi capitava il deputato PD di Bergamo e quello Forza Italia di Livorno. Non serve che io spieghi quanto questo sia importante, per evitare che si consolidi l’idea di una rappresentanza territorial-politica fusa insieme (che tanti guai ha generato in altri Paesi). È essenziale che non si formi un governo di regioni che governano contro altre.
Ad ogni modo, in termini generali, l’effetto della riforma oggetto del referendum è quello di favorire i partiti maggiori, che saranno maggiormente rappresentati (in misura percentuale) e godranno anche dell’effetto ‘voto utile’.
Vi sarà, poi, un incremento del potere del singolo deputato. È meglio essere uno su 200 che uno su 315. Ogni senatore varrà lo 0,5%, e dunque due senatori peseranno quanto un partitino della prima repubblica. Questo effetto, ossia l’incremento del potere del singolo parlamentare, è poco valutato, sia dai promotori della modifica, sia dagli oppositori.
Probabilmente perché la regola della semplificazione comunicativa prescrive che, al contrario del simbolo del ching, il nero sia tutto nero ed il bianco altrettanto. Gli effetti politici di tale incremento di potere individuale sono interessanti. Sarà più facile, per una dissidenza interna, far mancare la maggioranza, nella fiducia al governo o su singoli provvedimenti. Sarà ben più proficuo il trasformismo dei singoli deputati.
Saremo però anche tutti più garantiti, perché la coscienza politica individuale, e l’obiezione di coscienza del parlamentare avrà ben maggiore possibilità di incidere. Insomma, la valutazione di questo aspetto dipende dalla nostra fiducia nei deputati, e nella possibilità di ben adoperare questo maggiore potere individuale che la riforma conferisce.
Altri effetti potrebbero valutarsi in relazione ai partiti, ed alle lotte interne. Sicuramente le correnti di maggioranza, visto il pericolo, ed il minor numero di posti a disposizione, tenteranno di blindarsi, e di concedere ben poco alle correnti minori interne.
Tutto questo, però dovrebbe poco interessare gli elettori. Ciò che secondo me va ricordato è che se si è giunti a questo punto, non è senza ragione. Il rapporto diretto con un deputato, percepito come proprio, è venuto completamente a cessare da molti anni. Era un rapporto che si fondava soprattutto sul voto di preferenza.
Da molti anni i deputati sono, per lo più, indicati dal vertice del partito. A questo punto, chiaramente, l’elettore non avverte alcun collegamento diretto con lo specifico deputato. Non lo ha scelto, in taluni casi non sa neanche chi sia quello che ha contribuito ad eleggere. Ed il deputato non è all’elettore che sente di dovere una risposta, posto che le sue possibilità di rielezione derivano solo dall’essere rimesso in lista, in un collegio sicuro, dal vertice del proprio partito. In questo contesto è chiaro che l’elettore sia piuttosto indifferente al numero di deputati. I deputati eletti non lo rappresentano in Parlamento, rappresentano il (suo) partito. A questo punto un deputato ogni 80.000 elettori, o ogni 200.000, cambia ben poco, tanto il cittadino non ha idea di chi sia.
Votare quindi No, al referendum, non è volontà di conservazione, ma una manifestazione di ottimismo. Tenere aperti gli spazi democratici nella speranza che, presto o tardi, si possa riaprire, in qualche modo, il canale della scelta, che si è chiuso ormai da tanti anni.
Nota bene:
questo intervento rientra del dialogo aperto, promosso da Città Nuova per discutere in maniera aperta e ragionata sulle ragioni del No e del Sì in merito al referendum costituzionale in programma per il 20 e 21 settembre in Italia.
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